
Il conflitto è, alla base, un conflitto fra modelli. Fra modelli culturali, di organizzazione politica e sociale. Fra un modello che crede in un Dio che è presente in tutti gli aspetti della vita di una comunità e chi crede nel profitto delle borse e dimentica l’uomo e la sua capacità di essere, anche, competitivamente criminale. Il mondo islamico è sempre stato un elemento di forte contrapposizione culturale e religiosa tra l’Oriente prossimo e l’Occidente euroatlantico. Due concezioni del mondo diverse, due modi di interpretare il ruolo politico delle strutture di organizzazione sociale. Il confronto è fra un modello che chiede al processo economico di riuscire ad integrare sistemi sociali di gestione delle comunità e un universo teocentrico in cui l’identità di popolo, unita all’autoaffermazione di un credo politico-religioso materializzato da un unico strumento di fede, di ideologia, di condotta politica qual è il Corano, ha creato nei secoli le premesse per un’affermazione di un’identità islamica nell’alveo delle dinamiche politiche e sociali delle diverse comunità.
Un’unità senza Stati, che si contrappone ad un Occidente degli Stati che trova la sua debole e miope incapacità a prevenire le cause del terrorismo mediorientale a matrice islamica nella visione materialistica e quasi laica poco votata ad un’assimilazione e comprensione dell’altro e incapace di tutelarsi e garantire la proprie basi democratiche di fronte alla realtà “politica” del fondamentalismo. Chi sarà il nemico allora? Bin Laden? Saddam Hussein? O un mondo, quello islamico, che si compatta attorno ad un’unica ragione di fede? La fede in un Dio per il quale diritto, politica ed economia rappresentano elementi di una concezione di vita che non si perde nei confini di uno Stato o nelle impervie lande afghane.