L’Occidente si interroga molto spesso non solo sul suo futuro, ma sul ruolo che intende svolgere nelle relazioni internazionali. E, in particolare, si interroga partendo da presupposti non sempre coerenti con la sua storia dimostrando di non avere una idea precisa di cosa possa ancora oggi significare essere occidentali per chi si riconosce in una certa cultura laica, modernista, a metà strada tra un liberalismo di maniera e un socialismo riformista in continua trasformazione. Così come tutti noi ci interroghiamo, quando ci confrontiamo, o, meglio, quando siamo costretti a confrontarci con altre offerte culturali o altre possibili prospettive che si sovrappongono alla nostra nell’interpretare il mondo, su cosa significhino valori come laicità, libertà in politica come nella fede, tolleranza.
Ebbene, al di là delle vicissitudini degli ultimi dieci anni -passando dall’impegno in Iraq e in Afghanistan, alla crisi economica che non limita l’economia di guerra ma che, in fondo, rende guerra e pace contraltari di un mondo che passa sui drammi con disarmante facilità- sembra quasi che noi, in Occidente, viviamo in una sorta di mondo fantastico. Cioè esorcizziamo quotidianamente il reale e, in questo modo, anche la potenziale minaccia alla nostra sicurezza attraverso due modi molto singolari. Il primo, attaccando l’avversario, manifestando il nostro disappunto senza, però, un impegno diretto e usando la solita buona dose di laissez-faire che non ci ha fatto sconti portandoci a ben due guerre mondiali. Il secondo, con il cercare di comprendere il nostro antagonista al punto tale di dovergli trovare una dignità e una spiegazione che sia politicamente sostenibile per capirne il modo di agire. E’ un po’ quello che sta accadendo, paradossalmente, nei confronti dell’Is, Isis, già Isil e altre sigle che ricomprendono una unica identità o volontà: quella dell’Islamic State, ovvero il cosiddetto Califfato.
Questo spettro, dotatosi di una missione storica, si aggira oggi nelle comunità occidentali trascinando nella sua offerta di morte ogni coscienza senza porsi il benché minimo scrupolo. Anzi, trasformando l’immagine della morte altrui in un mezzo di propaganda politica, utilizzandola come un veicolo efficace per estendere l’alone di sofferenza in società solo apparentemente lontane, ma rese molto prossime dai media. In questo confronto con chi ritenta la carta di imporre un credo religioso al di sopra della laicità dello Stato con la violenza, dimostrando di essere il primo a violare gli insegnamenti del proprio Profeta e del proprio Dio, vi è un Occidente in corsa a comprendere. Un Occidente singolare dove certi esponenti del mondo della cultura e del giornalismo più accreditato, in un esercizio di libero pensiero tentano di far capire plausibilmente il perché di simile virulenza espressa non solo contro ciò che rappresentano i nostri valori, ma contro i loro fratelli islamici. Fratelli, questi ultimi, colpevoli di credere nella laicità dello Stato, di non essere così radicali da giustificare derive paranoiche ammantate da revanchismi storici che non hanno un senso in una comunità internazionale fatta di diversità e di rispetto delle diversità, e, solo per questo assassinabili.
Questa gara giocata tutta in casa a cercare di comprendere si presenta su due piani. L’uno, sotto forma di una comprensione delle reazioni, ma usando l’arte del condannare senza agire così come, ad esempio, espressa verso l’azione giordana e così proposta in un recente articolo di fondo di un quotidiano nazionale. L’altro, su un altro tipo di comprensione: condanno sino ad un certo punto e dico all’Occidente che deve aspettarseli prima o poi in casa propria, ma il “che fare” non è ben indicato. La prima, e fermiamoci alla reazione giordana, tende a capire le scelte di Amman ma, come scrive il giornalista, per fortuna non lui non è giordano (Sono giordano (ma da lontano) di Massimo Gramellini. La Stampa del 7 febbraio). Cioè viviamo un pò lontani, anche culturalmente, e di tale distanza ne gioviamo. Una posizione distante, per l’autore, che non gli permette però di comprendere cosa rappresenti la Giordania nel panorama mediorientale nel dimostrare la possibilità che un Islam laico e moderno è possibile. La seconda, in un libro di apprezzabili doti esemplificative che finisce per dimostrare che l’Occidente, nella sua inerzia, attribuisce dignità politica ad un movimento che di politico ha solo obiettivi totalizzanti, mentre usa metodi apertamente criminali per conseguirli.
Certo, tutto può essere comprensibile come tutto può essere condivisibile e non. Ma una cosa rimane certa: e cioè, il rischio, per questo Occidente in balia delle sue superficialità d’animo e tentato dal difendere un opportunismo buonista senza rimorsi storici di dare senza agire, e suo malgrado, dignità politica ad una condotta che ha poco di politico e molto di criminale qualunque ne sia la giustificazione a margine. Il rischio, insomma, di accreditare nel comprensibile senza accorgersene un comportamento politico e religioso disumanizzante, superando una rimozione storica dimenticandosi che nella nostra esperienza occidentale si era già data dignità politica al totalitarismo fascista e nazista salvo, solo dopo e con tanto sangue, porvi rimedio con una guerra dalle dimensioni più vaste.