"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

La Grande Madre non si ferma. La Russia al tempo di Putin

Ci sono momenti della storia di un popolo nei quali il destino si gioca non solo sui valori e sulle idee politiche, ma nel riconoscersi in simboli. Ovvero, nell’identificarsi in un significato astratto nella sua esteriorità ma concreto, significante nella sua portata comunicativa. Il simbolo ha la caratteristica, se riconosciuto, si aggregare su di se animi, sintetizzare pensieri, rappresentare volontà diffuse, ma convergenti su uno scopo senza doversi preoccupare di dispersioni e ridondanze. L’Occidente e gli Stati Uniti, in particolare, hanno molta difficoltà a riconoscere questo ad altri popoli o ad altre esperienze storiche ritenendo che tutto si sia concluso con la vittoria di un’idea di mondo che si dovrebbe risolvere nella loro taumaturgica politica di potenza.


La Russia di Putin forse non è la Russia che Washington si aspettava e, forse, probabilmente, Putin non è il leader compiacente che forse qualcuno avrebbe pensato potesse continuare nella linea politica di Eltsin, ancorando il futuro della nazione alle dinamiche di mercato a stelle e strisce. Ma, qualunque sia la giustificazione per giudicare l’agire politico di un Presidente, anche ricorrendo al discredito mediatico o a sottolineare la sua possibile responsabilità nella guerra in Siria, non provocata certo da Mosca, una cosa è certa: Putin si identifica con il suo popolo o con quella Russia che è prima di tutto un simbolo e poi un’idea di Stato. Se non si comprende questo ogni tentativo di comprensione, che sia però dettato da una onesta volontà di conoscenza, diventa vano se non strumentale per chi, in verità, ha tanto da farsi perdonare in questi decenni almeno quanto vorrebbe imputare a Mosca in questi ultimi anni.

La verità è che di fronte ad un’Europa che stenta ad avere una propria credibilità l’Occidente ha difficoltà ad ammettere il suo nanismo politico tanto quanto gli Stati Uniti soffrono nel vedere crescere leadership credibili e capaci che si smarcano dalla loro volontà di modellare il mondo, e guidare le relazioni internazionali, secondo uno spirito competitivo di chiara tradizione mercantilista. Dal 1999 in poi Putin salva la Federazione russa dalla disintegrazione ricollocando sotto il simbolo della Grande Madre un’idea di nazione che si è dimostrata protagonista, così come altre nazioni, della storia europea sia nel bene che nel male. Ma non solo. Tenta anche di stabilire la cooperazione con la Nato ma a patto che le peculiarità della Grande Madre siano tutelate e che la cooperazione non si trasformi in un rapporto di subordinazione. Eppure ciò non sarà sufficiente.

Dalla figura di un Presidente che vive le tragedie del suo popolo si passa al gioco al discredito per collocarlo al centro di responsabilità che si attribuiscono alla leadership di Assad, ad esempio, per il solo fatto di aver fatto una scelta di fronte alle non scelte europee e alla strumentalità americana nel decidere di capovolgere ogni possibilità di equilibrio in Medio Oriente. La verità è che, nonostante i giornali occidentali vogliano giudicare la Russia trasformando anche in un autocrate il Presidente Putin, Putin non è nulla al confronto del simbolo a cui esso si rivolge per affermare la sua leadership nonostante le opposizioni: la Russia. Un simbolo che è sopravvissuto alla caduta del comunismo sovietico a dimostrazione di quanto la stessa idea di rivoluzione internazionalista comunista non è stata capace di annichilire un senso di identità costruito in un millennio di storia.

Per capire questo forse sarebbe sufficiente ricordare il pensiero di un dissidente russo diventato vittima del modello sovietico pagandone di persona il prezzo. Un pensiero espresso quando ancora l’Urss era una idea al potere. Per Aleksandr Isaevič Solženicyn le cose erano chiare già nel giugno del 1978 nonostante tutto al punto di affermare ad Harvard che […] “…Se mi si chiedesse se io voglio proporre al mio Paese, l'Urss, a titolo di modello, l'Occidente cosi come è oggi, io dovrei rispondere con franchezza: no, io non posso raccomandare la vostra società come ideale per la trasformazione della nostra. Data la ricchezza di sviluppo spirituale acquisita nel dolore dal nostro Paese in questo secolo, il sistema occidentale, nel suo stato attuale di esaurimento spirituale, non presenta alcuna attrattiva. E' un fatto incontestabile: all'Ovest, indebolimento del carattere dell'uomo; all'Est il suo rafforzamento…”[…].

Riflettere su questo forse ci permetterebbe di capire molte cose e, forse, anche di restituire giusti meriti oltre che denunciare anche possibili demeriti. Ci permetterebbe di comprendere un Presidente che si inchina di fronte alle vittime di un attentato terroristico che non risparmia nessuno, ma che qualcuno ancora crede possa essere combattuto non si capisce con quali mezzi se non tollerarlo per chissà quali altri fini.

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