
L’attentato di Manchester rappresenta, quindi, null’altro che una volontà ben precisa di sottrarci il nostro quotidiano. Attaccare un simbolo, per quanto possa essere significativo o rappresentativo, nella personalità di un politico o nella espressione di un luogo, sia esso di culto o comunque manifestazione di un significato preciso, non pagherebbe tanto quanto paga in termini di paura e di allarme attaccare il quotidiano di ognuno di noi. Se nel primo caso - quello dei simboli rappresentativi di un potere o di una cultura - l’orrore si dissolve nel limite della fisicità dell’obiettivo e viene a metabolizzarsi nello sconforto indiretto, l’attacco ad un concerto, in un ristorante o ad un mercato diventa invece l’aggressione alla nostra normalità di cui la quotidianità, e la sicurezza di vivere le nostre routine, sono la manifestazione più diretta e condivisa di come vorremmo essere padroni del nostro tempo. Non aver compreso questo significa non aver, ancora una volta, capito che la profondità di un atto scellerato come quello posto in essere nei giorni scorsi tende proprio a diffondere un alone di sofferenza che entra nella case di ogni comunità occidentale che vive dei suoi ritmi, delle sue sicurezze.
Mira a distribuire un senso nichilista del rifiuto della nostra vita all’interno di ogni famiglia europea, così come già sperimentato con tragicità in altre terre da noi ritenute lontane ma, oggi, sempre più vicine. L’attentato di Manchester tende ad impedirci di essere padroni del nostro tempo nel tentativo di trasformare ogni giorno in un azzardo. Era questa la strategia del terrorismo jihadista cosiddetto 2.0. Lo è ancora, purtroppo, perché può disporre da anni di una capacità di distribuzione delle cellule terroristiche nelle nostre società che man mano si sono sedimentate nei quartieri europei ricercando quelle marginalità delle comunità già migrate ritenute strategicamente funzionali al disegno di aggressione. Comunità che si trasformano in opportunità logistiche se non, a necessità, in risorse operative allorquando il senso di identità diventa un moltiplicatore di violenza sul quale chi gestisce le fila del terrore può contare per giocare su una scacchiera ormai sin troppo diffusa senza impegnarsi direttamente. Chiedersi cosa non ha funzionato non serve a nulla.
Probabilmente dovremmo chiederci cosa non abbiamo capito, in questi ultimi anni, delle dinamiche mediorientali dopo averle assecondate se non manipolate. Cosa non abbiamo compreso su come l’aggressione terroristica si sarebbe trasformata abbandonando ogni velleità gerarchico-organizzativa per affermare un senso di capacità di attacco dove ogni singolo individuo diventa destinatario di un franchising. Un operatore del terrore che offre morte per un brand che ad azione terminata non manca di assumersene la paternità. Oggi, di fronte alle troppe comode miopie che celano un artefatto sentimento di sorpresa, ciò che all’Occidente rimane, al di là delle mobilitazioni di piazza e delle marce e corse esorcizzanti, è forse la capacità e la forza di riappropriarsi del suo tempo. Di esserne padrone e, con il suo tempo, di garantire ai giovani quel quotidiano fatto di serenità e di gioia che nessuna ragione o valore spacciato per universale può, attraverso un ammasso di corpi e di sangue senza anima ne vita, giustificare l’uccisione del tempo. Quel tempo che era vita per tutti, per colui che lo ha negato a se stesso e per coloro a cui lo ha negato per sempre.