Dopo l’attentato di Taba del 2 novembre 2004, nella notte del 23 luglio 2005, la città di Sharm el-Sheikh, fu scossa da una serie di attacchi terroristici suicidi che colpirono la località turistica egiziana per eccellenza. Una novantina di morti e più di 150 feriti il bilancio dell’attacco.
La serie di esplosioni che hanno trasformato una vacanza felice in un dramma scuotono gli animi occidentali ma insanguina i più bei luoghi del mondo mediorientale nei quali si coniugano sentimenti, emozioni, tradizioni e culture che tentano di vivere insieme consapevoli che l’incontro si trasforma non solo in un’opportunità di vacanza ma di lavoro per tutti. L’attacco a Sharm el-Sheikh non è solo un attacco al senso occidentale dell’esotico, né a un santuario intoccabile, ma a una possibilità unica nel suo genere: costruire il dialogo, il confronto fra culture diverse associando tradizione e modernità in un clima di reciproca serenità.
L’attacco questa volta non rappresenta solo un’ulteriore scelta di un obiettivo mediatico, esso unisce il dolore di ieri a quello di Taba cercando di impedire di proporsi come un mondo capace di dialogare, di dare all’Occidente un segnale di convivenza possibile. Da Taba a Sharm el-Sheikh vi è solo qualche mese ma la strategia è evidente: colpire l’Occidente e con essi gli stessi arabi che cercano una via alternativa al terrore, a un integralismo fine a se stesso e incapace di offrire opportunità di sviluppo perché disancorato da qualunque politica di valorizzazione delle proprie tradizioni e dei propri luoghi.
La trasformazione di Sharm el-Sheikh in uno spazio disumanizzato è la conferma di una volontà debole di non riuscire ad attrarre coscienze e intelligenze in una guerra santa che uccide indistintamente arabi e occidentali, vittime entrambi di una logica perdente, di un modello islamico che svuota e depaupera ogni valore di ospitalità e di opportunità in ragione di un’incapacità di essere e offrire una vera alternativa politica all’autocrazia. L’attentato di Sharm el-Sheikh è la sconfitta della leadership ideologica di Al-Qaeda e di Zawahiri, ma nello stesso tempo si pone come la vera trappola posta a Mubarak e alle autocrazie arabe che impediscono una transizione democratica delle proprie comunità.
Una trappola nella quale si rischia di cadere se nella regione non si realizza una coscienza collettiva di una necessaria ed equa partecipazione alla vita politica e alla realizzazione di un futuro condiviso, di dialogo, di sviluppo delle opportunità economiche e di cooperazione regionale. Da oggi l’isolamento del terrorismo diventa un problema non solo occidentale ma soprattutto arabo, mediorientale e islamico nel senso più ampio. Non vi sono più ricette occidentali né da esportare né da imporre con la forza o con altri strumenti persuasivi. La logica del terrore portata sul terreno di Hosni Mubarak è la stessa logica della fine di Sadat e di ogni minimo tentativo di dare alle comunità arabe la possibilità di vedere il mondo non più attraverso un velo, ma con occhi di partecipazione, di condivisione, di dialogo maturo.
Se la trasformazione delle relazioni regionali non avviene in termini cooperativi e di sinergie politiche, non solo si assicurerà la sopravvivenza di fragili nepotismi di vecchia data, ma si permetterà al terrorismo di riempire altri spazi vuoti lasciati nelle coscienze di chi vuole essere destinatario e protagonista tanto delle opportunità turistiche quanto della vita politica della propria comunità. Di chi vorrà superare la violenza rispettando l’altro, entrando in moschea senza scarpe ma con un paio di jeans. Di chi vuole guardare a Ovest in cerca di quegli amici e turisti che nello scegliere le località mediorientali riconoscono alla terra del Profeta il valore di un mondo da non distruggere per colpa di chi dell’Islam ne fa una insignificante bandiera di morte.