
Ma Londra rappresenta e non solo nell’immaginario arabo, quella grande nazione coloniale capace di offrire un senso laico dello Stato, un’identità politica che distingue fra fede e governo, umanizzando le relazioni sociali nel rispetto delle diversità. Quella nazione che ha permesso prima del 1967, prima della guerra dei Sei giorni, nonostante le crisi di Suez, il consolidamento di autocrazie laiche e social-riformiste nate da un processo indipendentistico che nel suo avvio non poteva che guardare al Regno Unito come primo modello di organizzazione di uno Stato. Uno spazio nel quale si propone una possibilità di vita condivisa fra culture, favorita proprio dalla visione inglese delle relazioni internazionali, forte di in passato condiviso con quasi tutte le più consolidate culture del mondo. Colpire il cosiddetto “Londonistan” ha significato, così, colpire il luogo della tolleranza e della convivenza. Una prossimità non gradita all’offerta fondamentalista. Il secondo aspetto: il confronto con l’Occidente. Con quell’Occidente che sino alla guerra dei “Sei Giorni” si confrontava con governi autocratici ma molto occidentali negli stili di vita. Governi nei quali Nasser prima, Sadat poi, re Hussein o lo stesso Assad-padre non derogavano alla laicità del potere. Ma la guerra dei Sei giorni avrebbe mutato lo scenario del Medio Oriente. Lo avrebbe cambiato profondamente. La sconfitta degli arabi spostò i termini del conflitto verso Occidente. Israele e l’Occidente diventavano ormai un nemico unico, rappresentavano il nemico da abbattere di fronte alla possibilità di un’autodeterminazione del Medio Oriente che passasse anche attraverso uno Stato libero palestinese.
La fine della guerra dei Sei giorni trasformò, in questo modo, l’antagonismo politico palestinese in terrorismo politico e ciò fu più che sufficiente per mutare il quadro della regione. Non solo. Lo spostamento del confronto su territori diversi rimodellava, nel frattempo, l’atteggiamento del mondo arabo e islamico nei confronti dell’Occidente dimostrandosi sempre di più un confronto politico, dove le variabili sociali e culturali diventavano i punti di crisi e di fragilità di qualunque architettura proposta per garantire stabilità a un potere ormai fuori controllo per assenza di logiche di potenza. Logiche all’interno delle quali la strategia indiretta della manipolazione terroristica dei movimenti vi era stata collocata. Dalla fine della guerra dei Sei giorni sino alla guerra del Kippur (Ramadan-Yom Kippur) la politica occidentale in Medio Oriente fallisce tutti gli obiettivi, giocando a far sopravvivere quel poco di laico che ormaisopravviveva al cambiamento. Una laicità autocratica sempre più distante da ogni opportunità/possibilità di dialogo a eccezione di Hussein di Giordania e di un Sadat ormai sconfitto due volte, suo malgrado, da Israele e dallo stesso mondo arabo.
L’abbandono delle soluzioni politiche, l’intransigenza di un Likud fondamentalista a sua volta spiazzano l’Occidente europeo e affidano ai soli Stati Uniti la responsabilità di colmare un vuoto di potere senza riuscire a offrire soluzioni possibili, meno che mai democratiche. Il fallimento libanese, l’incapacità di realizzare un coinvolgimento diretto dei poteri locali, la sopravvivenza di una monarchia tutt’altro che democratica come quella saudita e la tolleranza strumentale di Saddam Hussein non hanno favorito una politica costruttiva, ma hanno rappresentato solo una garanzia per un Medio Oriente il più possibile a stelle e strisce. Così, il fallimento di politiche non condivise dalla popolazione perché prive di una sostenibilità sociale ed economica e la rivincita dei talebani in Afghanistan, quanto il mancato dialogo mirato a far diventare un problema mediorientale la soluzione della sua stessa stabilità, fanno naufragare negli ultimi anni Ottanta l’ennesima speranza di pace e con essa l’ennesimo tentativo di individuare un nuovo itinerario di pace. L’assenza di una responsabilità diretta dei regimi mediorientali nell’assicurare un futuro alla propria popolazione, la mancata volontà di offrire opportunità di cambiamento politico negli anni Settanta e Ottanta, magari sostenuti da una pari volontà israeliana, come il persistere di regimi ormai lontani dall’offrire una via occidentale hanno determinato uno spostamento verso la soluzione teocratica nella ricollocazione dei termini di confronto politico.
Termini di governo politico ed economico che si sono orientati a favore dell’unico valore che potesse superare le diversità e colma il vuoto politico e di potere lasciato nella regione: l’Islam fondamentalista. L’ascesa di Khomeini è stato il momento della svolta e l’affermazione di Hamas il momento di sintesi concreta fra terrorismo politico e terrorismo religioso. L’avvio di un’era sanguinaria di un’apocalittica concezione della vita. Una concezione laddove la vita ha di per sé un significato relativo, non assoluto e la risposta è affidata al terrorismo religioso. Da tale epilogo il terzo aspetto: l’alternativa politica rappresentata dai regimi fondamentalisti. La sopravvivenza di regimi monarchici, la fine del modello di Stato laico di Sadat e di Hussein, la sopravvivenza di Assad-padre e di Saddam Hussein sino agli ultimi anni del secolo, sono state le risposte ad un vuoto di potere e di progetto che l’Occidente ha sottovalutato lasciando a Israele la responsabilità di difendere valori e interessi nell’area.
Nessuna offerta politica, nessuna democrazia da esportazione è stata presentata su un mercato difficile che chiedeva allo stesso Saddam Hussein, nel suo abile gioco al rialzo, di essere l’argine occidentale all’emergere di Khomeini. Così, l’ennesima politica del dubbio sulla vera volontà di pacificare, e quindi stabilizzare la regione mediorientale e del Golfo, fa sì che la deriva fondamentalista rappresenti - purtroppo, come ogni deriva politica che sfocia nel terrore - il risultato di un ennesimo fallimento politico. La prova dell’assenza di un progetto, di un modello capace di assorbire buona parte del dissenso attraverso la responsabilizzazione diretta dei dissidenti stessi e la realizzazione di un consenso. Le ragioni fondamentaliste avrebbero dovuto trovare una risposta e un argine in Medio Oriente, nel mondo islamico, nella capacità di sottrarre risorse laddove la laicità doveva essere riaffermata come separazione fra potere e credo. Due livelli della vita di una comunità che non possono essere resi distinti da soluzioni post-guerra.
Da queste considerazioni il quarto aspetto: l’ipotesi conclusiva. Oggi, in un modo radicalmente diviso negli assetti sociali, ma vicinissimo nella volontà di partecipare alle decisioni e alle opportunità di vita, coinvolgere le comunità nei progetti di crescita mondiale significa rendere sempre più sottile il confine fra chi ha e chi non ha. Fra chi deve essere responsabile delle proprie ricchezze, contribuendo alla crescita mondiale, e chi ne cerca una gestione per conto terzi senza ricadute. Le sacche di povertà rappresentano lo spazio più sensibile nella difesa di una stabilità sociale. Uno spazio nel quale la disperazione degli esclusi favorisce le azioni radicali e alimenta politiche antagoniste modellate su valori alternativi e in contrapposizione con la cultura dominante. La sconfitta del terrorismo in questo momento diventa un obiettivo prioritario, ma di una guerra politica che deve giocarsi in Medio Oriente e in tutte le periferie della marginalità araba e islamica.
Il nemico va sconfitto sul suo stesso terreno. Ogni possibilità di confronto in altri ambienti è destinata a fallire perchè fallisce il primo successo da conseguire urgentemente: sottrarre consenso. Guardandoci intorno dovremmo essere così sinceri da affermare che si può esportare ogni tipo di merce ma non un assetto politico, una ragione di governo condivisa. Si può imporre un regime, compiacente se necessario, ma la democrazia è scelta dalla comunità in termini rappresentativi e modellata sulle sue tradizioni, sulla sua cultura. Di fronte a ciò anche il sensazionalismo ideologico e intellettuale commerciale occidentale oggi non è più sufficiente. Può far vendere libri pensando che l’ultimo uomo sia l’ultima specie di una storia finita. Oppure, dato che la storia continua, che la democrazia sia esportabile ovunque a prescindere dalla diversità (si può citare un autore tra tanti, F. Fukuyama nel suo Esportare la democrazia. State building e ordine mondiale nel XXI secolo). Può far vendere libri, può esprimersi in confronti interessanti sulla nostra paura vista da qualcuno che, non occidentale, vive bene in Occidente e ci spiega come vincere le nostre ansie senza guardare la paura delle marginalità arabe, lasciando decidere all’Occidente come superare un’ ulteriore paura dopo averne vinte molte nella sua storia (M. Allam. Vincere la paura). O identificarsi nell’orgoglio ferito e difeso da chi vive e ha vissuto le paure dell’Occidente senza far sconti all’occidentalismo statunitense in passato (O. Fallaci. La rabbia e l’orgoglio).
Tuttavia, in un quadro che non muta, e di fronte all’incapacità dell’Islam di affrontare se stesso in chiave politica, se le ragioni della sconfitta politica sono i primi elementi da valutare questi diventano anche i punti di partenza sui quali realizzare la vittoria. E la prima ragione è far sconfiggere il terrorismo islamico dagli islamici, offrendo loro, nel rispetto delle singole diversità, gli strumenti, gli esempi e la fiducia necessaria affinché ognuno abbia il modello politico più aderente alle proprie tradizioni. Un modello che rispetti alcuni valori universali di democrazia che nessuno, Occidente compreso, per qualunque logica di potere o economica, potrà ignorare o violare. In questo modo, forse, se la nostra qualità della vita è da imitare, o da importare, saranno gli stessi arabi a deciderlo e sicuramente non sarà così blasfemo un jeans o una maglietta o un make-up accattivante portato nelle strade di un nuovo Medio Oriente capace di essere protagonista di se stesso.