La possibilità di allargare il mercato dell’Unione europea verso Est ha da sempre trovato nell’elemento turco una sua limitazione non solo economica ma soprattutto politica. Così come la possibilità di allargare al Bosforo lo spazio dell’Unione rappresenta quasi una sorta di soluzione contemporanea alla doppia identità di un paese di frontiera, un porta che certamente segna la cerniera strategica fra Occidente e Oriente.
La doppia anima turca, l’essere una prossimità occidentale, l’aver voluto occidentalizzare il proprio modello istituzionale dopo la fine dell’Impero Ottomano senza perdere la sua valenza islamica, gli ha permesso di collocarsi all’interno di un sistema di garanzia reciproca di difesa durante la Guerra Fredda partecipando all’Alleanza Atlantica. Anzi, rappresentando per questa un elemento essenziale per arginare da Sud-Est qualunque tentativo di penetrazione e di sfondamento del settore mediterraneo euro-atlantico da parte delle forze della ex-Unione Sovietica, esercitando il controllo sullo stretto dei Dardanelli. Ciononostante, una simile rendita di posizione geopolitica e di interesse militare non giustifica oggi una posizione politicamente egemone nel quadro contemporaneo delle relazioni mediterranee ed europee.
L’ingresso nell’Unione europea di Ankara certamente assumerebbe un significato rilevante, economicamente rilevante per uno Stato periferico che, pur avendo poco di europeo, sicuramente cerca di evitare un isolamento dovuto a non essere nemmeno uno Stato arabo. Tuttavia, ci sembra che la percezione che Ankara e il suo presidente Erdogan hanno dello spirito europeo sia un po’ falsata o forse convenientemente nebulosa. Infatti, non si comprende come il governo di Ankara non abbia valutato i termini stessi dell’adesione, i requisiti insomma che i partner fondatori dell’aggregazione comunitaria di ieri e i membri dell’Unione di oggi hanno posto a fondamento della partecipazione a uno spazio democratico da condividere.
Accusare l’Unione europea di ingerenze interne nel momento in cui si sottolineano quali devono essere i requisiti per l’ingresso non è una dimostrazione di condivisione dello spirito europeo. In fondo la scelta di aderire all’Unione è assolutamente fondata su una richiesta dello Stato che aspira a farne parte e, come tutte le organizzazioni, le regole poste dagli statuti quale risultato della negoziazione di un trattato diventano i termini contrattuali a cui dovranno attenersi i contraenti successivi. D’altra parte se il rispetto dei diritti umani e un’omogeneità delle garanzie civili e penali non si fosse posta come limite generale, probabilmente la Grecia o il Portogallo o la Spagna, sarebbero già Stati partner della Comunità con il risultato di annoverare fra i leader unionisti qualche colonnello greco, Salazar o lo stesso Francisco Franco. Ma non è stato così.
Oggi non si mette tanto in dubbio la democraticità del governo turco quanto la perfetta asimmetria di norme penali e civili che non si adeguano a princìpi generali di diritto condivisi addirittura dagli ultimi arrivati, gli Stati ex-sovietici per intenderci, per i quali le condizioni politiche imposte, e previste dall’Unione dal Trattato stesso, per permetterne l’adesione, sono state accettate e anzi ne hanno rappresentato un’occasione importante di crescita per chi usciva da modelli istituzionali in verità tutt’altro che democratici.
Per questo, se la Turchia ritiene che modellare il proprio ordinamento su prerogative democratiche sia un’ingerenza interna da parte dell’Unione europea, nella quale però le diversità trovano una loro specifica tutela nel rispetto dei vincoli dei trattati, allora probabilmente c’è poco di europeo nella cultura di Erdogan. Così, se un reato di adulterio fondato sulla poligamia legalizzata rappresenta un buon motivo per non sentirsi europei, certamente è un problema della Turchia e ciò non può coinvolgere il resto dell’Unione che proviene e fonda la propria identità politica su una cultura ben precisa, già diversa religiosamente, ma capace proprio nel rispetto della diversità di trovare soluzioni di sintesi al suo interno per realizzare uno spazio comune di vita economica e politica.
E c’è poco di cultura europea nell’animo politico turco se non si è compreso che proprio attraverso la difesa di una diversità sostenibile l’aggregazione europea fa della delega graduale della sovranità degli Stati membri il proprio vantaggio per il successo futuro garantito dal rispetto di diritti e princìpi minimi uguali per tutti. Erdogan può, e forse deve, fare i conti con l’Islam. Ma ciò non può rappresentare per il contraente più forte (tutti gli altri partner dell’Unione) un problema così rilevante da far modificare i termini contrattuali previsti per l’adesione di chiunque solo per opportunità di politica interna di Ankara. D’altra parte, nella sua dubbia identità non-europea ma anche non-araba la Turchia di oggi di Erdogan, come quella di ieri, ha ben poco da pretendere se non essere riconoscente all’Occidente di averla considerata, comunque e nonostante tutto, un partner, nell’invitarla a partecipare a un consesso europeo con il quale dal 1949 almeno ha parte della storia da condividere.