È fatta! Abbiamo votato. Crediamo di aver contribuito a rinnovare, quali italiani, il Parlamento Europeo. Crediamo di aver giustamente fatto il nostro dovere di cittadini europei. Ma siamo anche consapevoli che è stata una campagna elettorale cruenta, senza risparmi, come sempre, di accuse, strumentalizzazioni mediatiche e promozioni politiche da piazzisti. L’assenza di serenità, il clima calcistico di polemiche itineranti ha dimostrato quanto sia prevalsa una logica elettorale contraddistintasi per una conflittualità dialettica senza quartiere dimostrando, in questo modo, quanto in realtà sia distante la sensibilità europea che si sarebbe dovuta esprimere. Quanto il confronto con l’altro sia un rischio da rifuggire convinti che la verità e le capacità siano soltanto appannaggio di un singolo leader, di un solo gruppo, grande o piccolo che sia.
L’Unione di domani non ha bisogno di uno o di più leader. Ha già sperimentato la pericolosità del dirigismo in storie non molto lontane nella memoria per far si che queste possano diventare ancora una volta lo spettro del nostro futuro. L’Unione di domani è, per il solo fatto che è aumentato dal 1 maggio il suo spazio politico, già diversa. Diversa non solo perché ha un Parlamento nuovo ma perché, nell’allargamento, nella necessità di un confronto plurinazionale realizza un legame politico e culturale nel definire e istituzionalizzare l’incontro fra l’Occidente più vero con il cuore romantico mitteleuropeo.
Est ed Ovest si sintetizzano per la prima volta in un’agorà comune, dove la peculiarità di ogni singola identità nazionale cerca di interagire con l’altra parte di essa. L’Europa latina e sassone con l’anima slava. Un’Europa, quella dell’Est, decisa ad avere un ruolo, a fare della diversità un vantaggio competitivo da spendere senza abbandonare le identità delle singole nazioni. Identità a cui si deve la capacità di aver contribuito a far naufragare quanto rimasto dell’utopia collettivista e della mortificazione dell’individuo, della comunità, dello Stato in quanto tale all’interno della normalizzazione politica (ex)sovietica.
La necessità di un’Europa consapevole di dover assumere un nuovo ruolo nella comunità internazionale. Una dimensione politica, oltre che economica, quella europea, che non si affida ai buoni uffici di una stretta di mano o di un sorriso, ma a delle capacità concrete dimostrate con i fatti e non con la politica delle immagini da telepromozione. Solo in questo modo si dimostra la credibilità del singolo partner e dei suoi rappresentati e dell’Unione nel suo insieme.
Un’Unione tecnocratica, burocratica, d’altra parte, non avrebbe un grande futuro. Un’Unione politica sì, ma evitando personalismi facilmente attaccabili, poco difendibili in Europa. Per questo, superare una tentazione di direttorio è il primo obiettivo da perseguire attraverso la ratifica della Costituzione e la coscienza di agire con politiche europee anche nell’ambito nazionale. Ma il confronto appena concluso ha dimostrato, in tutto questo, che nel nostro piccolo paese l’Europa si è persa nelle singole province favorendo aspettative di risultati locali, europei nelle forme, e nell’espressione, ma molto locali nelle intenzioni. Ciò che è mancata, e manca ancora oggi, è una lucida cultura politica.
Una chiarezza di collocazione e di idee che favorisca l’anima europea del Paese che non può essere lasciata in balia di valutazioni qualitative di una rappresentanza qualunque in una comunità politica che ancora oggi stentiamo a comprendere. D’altra parte, anche se volessimo continuare a concepire l’Europa solo come mercato, l’Unione di domani ci supera affermandosi come un mercato di idee, di progetti, di programmi, di scelte, forse anche dure, difficilmente sostenibili. Scelte che, nostro malgrado, non potranno essere solo il risultato dell’iniziativa di chi qualitativamente crede più di altri nella forza dell’integrazione e al cui successo ne affida il proprio futuro. Un mercato, quello delle idee, che rifugge qualunque provincialismo, che non accetta nepotistiche riproduzioni di leader o di leadership, tutt’altro che riformiste, certamente poco lungimiranti. Ma, ancora una volta, in un’Europa di provincia, vincono tutti.