Il dramma palestinese, l’intransigenza israeliana che si risolve da sempre nella politica dell’apertura a metà di ogni possibile porta pronta a chiudersi alla prima richiesta di passi indietro a Tel Aviv -che giunga dal mondo arabo o non solo- continua a svolgersi man mano in una semplificata, e sterile, politica del bastone e della carota. All’ombra delle crisi che hanno investito il Nord Africa e le autocrazie più consolidate nel Medio Oriente come quella egiziana, libica e siriana, Israele ha ricordato al mondo, e suo malgrado, l’esistenza del problema palestinese. L’esistenza di una mai risolta questione dei Territori soprattutto partendo da un presupposto storico fondamentale: che se l’Israele di oggi si chiamava Palestina già secoli era perché l’Israele di oggi era già terra dei palestinesi. Ma così come Tel Aviv ha rimesso sul tavolo da gioco la Palestina, Erdogan ha ricordato il legame storico tra l’Egitto e la Turchia. Le affinità che sopravvivono ad una storia imperiale costruita per diversi secoli tra Ankara e Il Cairo.
Le coincidenze riformiste che hanno contraddistinto i giovani turchi con i riformatori egiziani da Nasser sino a Sadat. I percorsi condivisi delle vie del Medio Oriente, da Ankara verso Baghdad passando per Damasco. La storia turca oggi si ripresenta alle porte ripercorrendo itinerari già vissuti ma dimenticati dall’Occidente che nella Guerra Fredda, collocando Ankara nell’aggregazione atlantica, aveva percorso a sua volta. Ciò che sorprende, però, leggendo i quotidiani di questi ultimi giorni e riflettendo sulle argomentate analisi dei migliori commentatori occidentali, è che ci si ricorda solo adesso che esiste la Turchia. Cioè che esiste uno Stato estremamente singolare che unisce la propria storia di erede del più grande impero islamico, quello Ottomano, con la storia dell’Occidente contemporaneo. Una coincidenza straordinaria che pone Ankara come unico ponte riformista e riformatore possibile tra l’Europa e una comunità fortemente cresciuta nel mondo come quella islamica. Una comunità che nella dimensione turca è stata ridefinita, in ciò che sopravvive della cultura kemalista, nei valori e nei diritti riconoscendo un’ortodossia laica per quanto Erdogan esprima, nelle parole, il sentimento delle comunità religiose che lo hanno rieletto.
Che l’Europa si sia dimenticata della Turchia come attore necessario per ricomporre uno scenario di instabilità che si dilata sempre di più in Medio Oriente e in Nord Africa è a dir poco incredibile. Certo, non ci si deve meravigliare però. L’Occidente soffre da anni di miopie sempre più gravi nei confronti del proprio destino e di ciò che lo circonda governando il proprio quotidiano affidandosi, ad esempio, ad attori o comparse di comodo sulla cui fiducia e credibilità ci sarebbe poco da stare allegri: il caso libico potrebbe dire molto tra qualche mese. Israele, invece, nella sua innegabile forza di imporre la propria politica sui Territori, è consapevole di essere ancora una volta più della Turchia, che peraltro è membro della NATO, considerato la proiezione dell’Occidente in Medio Oriente continuando, in forza di tale certezza, a sovrapporre e ad imporre la propria storia su quella altrui, ad affermare un proprio diritto senza riconoscere pari diritti ad altre popolazioni antiche quanto quelle ebraiche.
Da queste considerazioni, leggere oggi analisi stupite sulle dichiarazioni di Erdogan a favore dei Palestinesi di Ramallah potrebbe suscitare curiosità o attenzione. Ma in realtà non vi è alcuna attenzione o curiosità che si giustifichi nella posizione assunta dal presidente turco per tre ordini di motivi. Il primo, la Turchia non ha debiti politici nei confronti dell’Occidente dal momento che, pagato il prezzo della disfatta dell’impero Ottomano con la fine della Prima Guerra Mondiale, essa ha rappresentato il primo e il più significativo esempio di democratizzazione progressiva di un Paese a forte maggioranza islamica realizzato imponendo una cultura laica di governo e la garanzia di alcuni importanti diritti civili. Il secondo, di essere stato e di esserlo a tutt’oggi un fedele alleato inserito nella Alleanza Atlantica, alleanza di cui Israele non ne fa parte. Il terzo, di essere il partner più importante per volumi di consumatori e capacità di commercializzazione dei prodotti europei verso l’Oriente. Ve ne sarebbe un quarto, però. E cioè, di essere l’unico attore politico e geopolitico capace di colmare il vuoto lasciato dalle rivoluzioni arabe di questi mesi. Ma, nonostante ciò, ancora una volta, e coerentemente con quanto scrissi qualche mese fa, l’Occidente continua a sottovalutare la Turchia, il suo ruolo possibile in Medio Oriente, a dimenticare la Palestina e la possibilità di favorire uno stato democratico palestinese.
Continuare a non voler valutare il peso della Turchia e sacrificare l’equilibrio del Mediterraneo e del mondo intero a favore di un’intransigenza israeliana che va contro ogni ragionevole responsabilità storica verso altri popoli - che non possono non essere considerati anch’essi eletti, se non altro perché parte dell’umanità indistinta – significa privarsi dell’unica strada percorribile per traghettare valori di democrazia, imperfetta magari ma non marginale nel complesso, nell’altra metà delle terre di mezzo: la via turca. Continuare a dimenticare quanto è ben chiaro ad Erdogan, così come lo era per Sadat e Rabin, è veramente politicamente un suicidio per la sicurezza futura nel mondo occidentale: cioè che la stabilizzazione del Medio Oriente passa attraverso la garanzia di una giusta ed equa pace sociale nelle comunità più povere e un riconoscimento di autonomia vera e piena alla Palestina risolvendo, una volta per tutte, la questione dei Territori e un dogma inaccettabile per tutte e tre le religioni monoteistiche: l’appartenenza di Gerusalemme al solo stato ebraico. Se l’Occidente, distratto dai suoi drammi finanziari, dovesse ancora una volta sottovalutare il valore aggiunto di Ankara per una politica mediorientale costruttiva e di apertura -senza costringere una volta per tutte Tel Aviv a essere ragionevolmente realista ed evitare la biblica sofferenza del proprio popolo e delle altrui popolazioni- per auspicare e dirigere con consensuale linearità la transizione e governare il caos mediorientale, tutto questo si trasformerà, allora, nell’ennesima sconfitta. Una sconfitta che, come una nebbia che si dilata, ci avvolgerebbe nelle spire dell’instabilità più diffusa e dell’insicurezza più certa.
Che l’Europa si sia dimenticata della Turchia come attore necessario per ricomporre uno scenario di instabilità che si dilata sempre di più in Medio Oriente e in Nord Africa è a dir poco incredibile. Certo, non ci si deve meravigliare però. L’Occidente soffre da anni di miopie sempre più gravi nei confronti del proprio destino e di ciò che lo circonda governando il proprio quotidiano affidandosi, ad esempio, ad attori o comparse di comodo sulla cui fiducia e credibilità ci sarebbe poco da stare allegri: il caso libico potrebbe dire molto tra qualche mese. Israele, invece, nella sua innegabile forza di imporre la propria politica sui Territori, è consapevole di essere ancora una volta più della Turchia, che peraltro è membro della NATO, considerato la proiezione dell’Occidente in Medio Oriente continuando, in forza di tale certezza, a sovrapporre e ad imporre la propria storia su quella altrui, ad affermare un proprio diritto senza riconoscere pari diritti ad altre popolazioni antiche quanto quelle ebraiche.
Da queste considerazioni, leggere oggi analisi stupite sulle dichiarazioni di Erdogan a favore dei Palestinesi di Ramallah potrebbe suscitare curiosità o attenzione. Ma in realtà non vi è alcuna attenzione o curiosità che si giustifichi nella posizione assunta dal presidente turco per tre ordini di motivi. Il primo, la Turchia non ha debiti politici nei confronti dell’Occidente dal momento che, pagato il prezzo della disfatta dell’impero Ottomano con la fine della Prima Guerra Mondiale, essa ha rappresentato il primo e il più significativo esempio di democratizzazione progressiva di un Paese a forte maggioranza islamica realizzato imponendo una cultura laica di governo e la garanzia di alcuni importanti diritti civili. Il secondo, di essere stato e di esserlo a tutt’oggi un fedele alleato inserito nella Alleanza Atlantica, alleanza di cui Israele non ne fa parte. Il terzo, di essere il partner più importante per volumi di consumatori e capacità di commercializzazione dei prodotti europei verso l’Oriente. Ve ne sarebbe un quarto, però. E cioè, di essere l’unico attore politico e geopolitico capace di colmare il vuoto lasciato dalle rivoluzioni arabe di questi mesi. Ma, nonostante ciò, ancora una volta, e coerentemente con quanto scrissi qualche mese fa, l’Occidente continua a sottovalutare la Turchia, il suo ruolo possibile in Medio Oriente, a dimenticare la Palestina e la possibilità di favorire uno stato democratico palestinese.
Continuare a non voler valutare il peso della Turchia e sacrificare l’equilibrio del Mediterraneo e del mondo intero a favore di un’intransigenza israeliana che va contro ogni ragionevole responsabilità storica verso altri popoli - che non possono non essere considerati anch’essi eletti, se non altro perché parte dell’umanità indistinta – significa privarsi dell’unica strada percorribile per traghettare valori di democrazia, imperfetta magari ma non marginale nel complesso, nell’altra metà delle terre di mezzo: la via turca. Continuare a dimenticare quanto è ben chiaro ad Erdogan, così come lo era per Sadat e Rabin, è veramente politicamente un suicidio per la sicurezza futura nel mondo occidentale: cioè che la stabilizzazione del Medio Oriente passa attraverso la garanzia di una giusta ed equa pace sociale nelle comunità più povere e un riconoscimento di autonomia vera e piena alla Palestina risolvendo, una volta per tutte, la questione dei Territori e un dogma inaccettabile per tutte e tre le religioni monoteistiche: l’appartenenza di Gerusalemme al solo stato ebraico. Se l’Occidente, distratto dai suoi drammi finanziari, dovesse ancora una volta sottovalutare il valore aggiunto di Ankara per una politica mediorientale costruttiva e di apertura -senza costringere una volta per tutte Tel Aviv a essere ragionevolmente realista ed evitare la biblica sofferenza del proprio popolo e delle altrui popolazioni- per auspicare e dirigere con consensuale linearità la transizione e governare il caos mediorientale, tutto questo si trasformerà, allora, nell’ennesima sconfitta. Una sconfitta che, come una nebbia che si dilata, ci avvolgerebbe nelle spire dell’instabilità più diffusa e dell’insicurezza più certa.