"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

Brexit o Bre-entry?

[…] La Signora non si volta […]. Dovremmo a questo punto pensare che la frase della Thatcher sia una sorta di nemesi dell’atteggiamento antieuropeista difeso dalla Lady di ferro che oggi passa a riscuotere il dazio. Oppure potremmo pensare che abbia trionfato il solito felice, si fa per dire, isolazionismo britannico post-impero quasi a voler sognare i fasti vittoriani con tutti i pregi e difetti di un’epoca alla quale Londra ha dovuto pareggiare costi e benefici nel tempo. Eppure qualcosa su questa vicenda vorrei scriverla anch’ io visto che -tra tanti esperti, analisti più o meno saccenti e Nostradamus della nostra vita- forse tra noi poveri piccoli europei convinti qualcuno potrebbe dissociarsi dal catastrofismo imperante. Dal dominio dei luoghi comuni e delle interpretazioni strumentali alla Severgnini sia di coloro che celebrano la Brexit e di chi la condanna senza appello.

Iniziamo con il dire che il referendum sulla uscita o meno del Regno Unito dall’Unione Europea è stato, soprattutto, un referendum politico e non principalmente economico. Economicamente il Regno Unito, come la Danimarca, si sono avvalsi sin da subito della clausola opt-out, ovvero della possibilità di differire e/o di decidere quando sarebbero entrate nello spazio euro dando corso alle previsioni di Maastricht poi riformulate nel 1997 ad Amsterdam. Ciò significa che Sterlina e Corona danese sono rimaste monete sovrane come i loro sistemi fiscali al di là delle formule di raccordo con l’euro. D’altra parte Londra difficilmente avrebbe, adottando l’euro, ricondotto i termini di scambio che sopravvivono nel Commonwealth economico nelle intemperanze dell’euro. Dell’Unione Europea Londra ha condiviso alcune politiche sociali e un mercato di beni, capitali e servizi preferenziale senza mettere in discussione la sua moneta. Ciò non dovrebbe economicamente sorprenderci. Eppure il referendum inglese ha una sua rilevanza perché nel voto affonda - prim’ancora che l’idea economica di un mercato comune condiviso da tutti nel periodo pre-euro - l’idea politica.

E’ evidente che, salvo la compiacenza di alcuni Stati europeisti più per opportunismo che per capacità, la formula tecnocratica di una realtà sovranazionale che decide su temi importanti per i cittadini e per la loro vita ha ormai poco a che fare con un ideale di democrazia equa e solidale a cui il progetto eurounionista si richiamava. La deriva tecnocratica di una realtà giuridico-politica che non è una federazione e si comporta come una pessima confederazione non poteva non giungere ad una resa dei conti. La prevalenza della dimensione finanziaria su quella della vita dei popoli del continente, una politica economica che impoverisce invece di far crescere, una politica estera condotta a ruota di altre potenze senza manifestare una dignità di idee e di azione, una politica migratoria che senza il rispetto della reciprocità mina le poche certezze a cui si aggrappano i cittadini che riscoprono valori nazionali edulcorati da una ipocrisia di apparente solidarietà, sono la negazione dell’idea stessa di Europa. Un prezzo che Londra o gli inglesi non avrebbero voluto pagare in un futuro prossimo. Giunti al bivio, nostro malgrado, il referendum inglese dovrebbe farci riflettere non su cosa succederà adesso, oggi, domani o dopodomani, ma su come e su cosa far cambiare idea a Londra.

Cosa andrebbe rivisto dell’architettura comunitaria per far rientrare il Regno Unito, quanto sostenere e aiutare a rimanerci gli Stati meno fortunati come la Grecia, in uno spazio di solidarietà e di reciproca cooperazione che rimetta al centro i popoli europei salvaguardando le loro identità, ma facendo della diversità quanto dichiarato dai preamboli degli stessi trattati: una risorsa fondamentale. Come far capire agli inglesi che non vi sono lusinghe provenienti da oltreatlantico che possano garantirgli un futuro senza crisi, o credere di potersi affrancare dalla recessione di un modello anch’esso in crisi come quello degli Stati Uniti che affidano al TTIP come al TPP la sopravvivenza di una leadership economica, il difendere la pretesa di essere gli unici a dover guidare i mercati mondiali. L’idea di Unione Europea non può morire a Londra. Al contrario, da Londra essa chiede di tornare alle origini, al motivo per la quale, seppur con molti limiti e alterne vicende, essa è cresciuta sino ad oggi ma ne ha mutato lo spirito per non dire che ne ha tradito gli scopi. Il vero obiettivo di chi ha a cuore un’idea di Europa solidale e cooperativa è rinegoziarla.

Si, avere l’umiltà di rimettere in discussione tutto l’impianto dell’UE, sia esso in termini economici che di partecipazione popolare. Rinegoziare significa dare la possibilità agli Stati di rivedere le loro parità fissate troppo in fretta tra le vecchie valute nazionali e l’euro valutando modi e metodi di rientro anche solo parziale dal debito pubblico con un aumento del potere di acquisto dei redditi percepiti, aumentando le possibilità di produzione e i consumi, eliminando sperequazioni nelle qualità della vita tra cittadini comunitari. Ciò varrebbe anche per l’Italia, paese al quale la rinegoziazione del controvalore lira vs euro fissato in termini arbitrari e modificando i bilanci, avvenuto senza un controllo sui prezzi al consumo, porterebbe qualche sacrificio ma aprirebbe la finestra su un futuro migliore e a maggior ricchezza disponibile e impiegabile per le nuove generazioni. Rinegoziare significa riscrivere pagine politiche comuni leali. Le sole rigide norme contabili, fissate su criteri più ragionieristici che politico-funzionali, non hanno dato grandi frutti. Probabilmente dovremmo rinegoziare una nuova Europa partendo dal basso. Tecnocrati, burosauri illuminati della finanza e politici senza scrupoli hanno svenduto ciò che rimaneva di una grande idea di pace, prosperità e cooperazione a cui per più di 50 anni abbiamo affidato le nostre vite e quelle dei nostri figli.
Gorbaciov -un uomo che ha vissuto il totalitarismo nella sua agonia e che ha creduto in una Europa più grande che aprisse le porte a quella parte della nostra cultura che oggi vorremmo rifiutare come la Russia- nel suo libro La Casa comune Europea scriveva nel 1989, come se il lavoro della storia non fosse ancora finito, così:

[…] La comunità mondiale oggi più che mai sta attraversando profondi mutamenti. Molte sue componenti si trovano a una svolta cruciale. Cambiano decisamente la base materiale della vita e i suoi parametri spirituali. […] Non possiamo sottrarci alla necessità di fare tutto ciò che è alla portata della nostra ragione, perché l’uomo possa anche in futuro adempiere al ruolo che gli è stato riservato su questa Terra e forse nell’Universo […] Ciò è vero per tutta l’umanità. Ma per l’Europa tre volte di più: sia nel senso della responsabilità storica, sia nel senso della gravità e dell’urgenza dei problemi e dei compiti, sia nel senso delle sue responsabilità […] il nostro continente può far fronte a tutto questo, può rispondere alle speranze dei propri popoli e assolvere il proprio dovere internazionale […] solo riconoscendo la propria integrità e traendo da ciò le giuste conclusioni…[…] (pp.210-216)

Perdere questa opportunità storica per costruire un millenarismo di pace e non di conflitti sarebbe un crimine verso l’Occidente europeo. Significherebbe buttare nel cestino dell’egoismo quella comune volontà di giungere ad un modello condiviso che dai drammi delle guerre, delle intolleranze religiose si è voluto allontanare per porsi quale antidoto al pericolo di nuove divisioni dalle quali nessuno Stato europeo, qualunque possa esserne il vantaggio sperato, ne uscirebbe vincitore.

Articoli correlati

Referendum olandese e dubbi europei

Europa: l’incubo dei francesi

© 2006-2022 Giuseppe Romeo
È consentito il download degli articoli e contenuti del sito a condizione che ne sia indicata la fonte e data comunicazione all’autore.
Gli articoli relativi a contributi pubblicati su riviste si intendono riprodotti dopo quindici giorni dall’uscita.

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.