Ci sono uomini politici che apprezziamo per la loro personalità e per il modo con il quale interagiscono con il popolo e con gli elettori perché si sforzano di rappresentare quei valori e quei caratteri che una nazione sintetizza nella sua identità. Una identità che spesso è il risultato di non semplici esperienze e percorsi storici. Ci sono altri che sopportiamo perché a volte si presentano come prodotto del tempo, che sommano su di essi le nostre inquietudini sino a farne uno strumento politico per legittimare se stessi attraverso un’opera di strumentalizzazione progressiva di animi e coscienze, restituendo valore ad un senso di identità perduto quale argine ad un pericolo di omologazione.
Si potrebbe dire, con le precauzioni del caso, che il primo ministro ungherese Viktor Orbán sia una sintesi di tali stereotipi. Una sintesi che sembra andare oltre il limite del suo radicalismo nazionalista. Vi sono poi dei cosiddetti filantropi, o personalità impegnate nel mondo denazionalizzato degli aiuti umanitari e del sostegno alle comunità meno fortunate, che sembrano volersi porre alla guida del futuro del mondo con una straordinaria capacità non solo di influenzare le opinioni pubbliche entrando nelle stanze dei media, ma con la volontà di affermare un pensiero unico che dovrebbe, alla fine, rappresentare il risultato finale di un’idea, di una soluzione.
Ora, che il mondo sia il risultato delle diversità non è solo una ovvietà dettata dalla condizione umana nel suo manifestarsi con peculiarità proprie. Esso è anche il percorso di culture diverse e di esperienze storiche che hanno legato i popoli al loro modo di interpretare la vita e le relazioni umane. Cruente o pacifiche le relazioni umane sono state e sono l’espressione del modo attraverso il quale, al di là degli scontri, molte sintesi si sono realizzate, aprendo a possibilità di cooperazione che hanno ridotto i termini stessi di competizione soprattutto negli ultimi decenni del Novecento.
Di tutte queste, di certo l’esperienza storica dell’Unione europea è una delle più significative. Ma ciò nonostante, oggi, sembra che il fascino dell’omologazione trasformato in un sentimento di normalizzazione culturale delle diversità stia diventando la vera sfida del nuovo secolo per l’umanità. Una sfida che pare debba soprattutto giocarsi in Europa assecondando un fenomeno migratorio che non solo è causa delle politiche e delle scelte economiche di chi ne è promotore - i vari Soros ecc… dei tempi migliori della speculazione economico-finanziaria a tutto campo - ma che è strumento che si antepone nel suo manifestarsi proprio a quel significato di migrazione per il quale, se frutto di libera volontà di crescere e di confrontarsi, essa è il risultato di una fisiologica contaminazione culturale che tende non a minare, ma a valorizzare la sua diversità con altre diversità.
Nel confronto tra i due ungheresi, Orbán e Soros, alla fine si possono intravedere le due contraddizioni che non solo frenano il processo evolutivo dell’idea europea ma, anche, che minano quel senso e quel sentimento di solidarietà che la cultura occidentale si è costruita con difficoltà dopo secoli di guerre. Che si tratti del populismo neo-nazionalistico del primo ministro ungherese o della filantropica volontà di Soros che mira ad annichilire progressivamente l’idea di Europa a favore di un dirigismo economico-finanziario denazionalizzato e diretto da oltreatlantico, entrambe le due posizioni rappresentano l’antitesi della storia europea. Esse rappresentano due pericoli alla realizzazione di quella cooperazione continentale che non chiede omologazione, ma rispetto delle diversità unite da una condizione di valori e di ideali che fanno della loro singolarità quella voce plurale che ne avvantaggia le prerogative, le qualità, le eccellenze culturali.
La verità è che tra il populismo imperante neo-nazionalistico degli Orbán e le manovre pseudo-filantropiche dei Soros, che vorrebbero depotenziare gli Stati nazionali e le loro sovranità in virtù di un populismo eterodiretto dalle lobby finanziarie, l’Europa finisce per perdere la sua identità di sintesi di differenze, di esperimento unico, più unico di quello stesso degli Stati Uniti, di riorganizzare la diversità in un modello di coesistenza. Di rappresentare nel mondo un modello aggregativo sovranazionale ma non antinazionale di cooperazione integrata di singole esperienze dove ognuna di esse è, proprio nel suo intimo, una esperienza …europea. Piegare l’Europa alle intemperanze di Orbán di certo renderebbe vani tutti gli sforzi per realizzare quella “casa comune” che per Gorbaciov doveva in qualche modo prevedere anche la partecipazione della nuova Russia.
Cedere alle lusinghe di un Soros significherebbe abbattere quella forza che è dettata dall’insieme delle nazioni europee per piegarla ai voleri di uno pseudo-umanitarismo finanziario che molto facilmente fa vedere solo quella parte del volto che più gli aggrada. Ovvero, quella difesa di una pietas per diversità che non sono frutto di un destino condiviso, ma il risultato paradossale dello sfruttamento di coloro che oggi, dall’alto di un trono salomonico, in loro nome vorrebbero distruggere l’unità e la peculiarità culturale ed economica del Vecchio continente dividendolo tra Brexit e velleitarismi catalani. Di coloro che vorrebbero attribuire le colpe del disastro umanitario non all’ingordigia della grande finanza e delle grandi compagnie di cui sono espressione, ma ai popoli di un’Europa il cui prezzo di sangue essi hanno già pagato al tribunale della storia combattendo tra di loro e decidendo di non farlo mai più.