Il segretario di stato americano alla difesa Donald Rumsfeld in visita alle forze impegnate in Iraq. La domanda di un caporale: "[…] Perché dobbiamo cercare nelle discariche pezzi di metallo buttati e vetri antiproiettile per corazzare i nostri veicoli? - ha chiesto il caporale Wilson tra i sentimenti di approvazione dei suoi commilitoni - perché non abbiamo veicoli corazzati adeguati?[…] ". Quando la potenza si perde nei dettagli.
Non è stato certamente un buon esordio per Rumsfeld l’avvicinarsi all’Iraq dalle terre kuwaitiane tentando di motivare i soldati della Guardia Nazionale prima che questi si unissero al contingente di Iraq Freedom di lì a poco, perché è mancata l’ovazione che un vincitore si aspetta dalle proprie truppe. E non è stata neanche un’opportunità di dialogo nel momento in cui la volontà di non confrontarsi in termini dialettici ha costretto il Segretario alla Difesa a chiedere al caporale una replica alla domanda - molto semplice in verità, nei termini e nei contenuti soprattutto - convinto che sia sempre sufficiente che siano i generali gli unici interlocutori credibili a cui rivolgersi o ai quali imporre le scelte politiche conoscendo la sensibilità dei capi militari alla propria carriera.
Qualcuno potrà dire, cercando di salvare l’immagine di una potenza che non può avere debolezze materiali e ideologiche, che in fondo agli americani si dovrà riconoscere anche di essere così democraticamente evoluti da poter intervenire ed esprimere il proprio disappunto in qualunque circostanza e di fronte a chiunque. Ma ciò non è e non può essere sufficiente. L’intervento del caporale Wilson non è solo l’esercizio di un diritto democratico di dedurre le proprie convinzioni e opinioni anche se espresse da un militare. È la dimostrazione di quanto la motivazione sia l’aspetto più determinante nella condotta di una campagna militare, di quanto non si possano ingannare le truppe sui reali rischi e sulle probabilità che il pericolo da correre sia espresso per un risultato condivisibile e percepibile attraverso un risultato politico evidente, chiaro.
Il caporale Wilson nella sua semplicità ha dimostrato quanto sia importante dotare la politica di concretezza e di capacità di decidere tecnicamente l’impiego della forza e di tutelare le proprie risorse al di là di tutto con il meglio dell’equipaggiamento che si può offrire. Non si va in guerra con ciò che si ha. Una risposta del genere può essere compresa e accettata da chi è costretto a combattere per difendersi ma non da chi deve condurre una guerra preventiva. Chi attacca deve avere i mezzi per condurre una campagna di cui ne dovrebbe conoscere i rischi, valutarne la durata e prefiggersi dei risultati conseguibili nell’immediato.
La risposta di Rumsfeld è la peggiore risposta che un capo militare abbia mai dato nel corso della storia militare ai propri uomini. È la risposta che di fronte all’imprevedibilità di eventi non considerati spiazza il leader scoprendone le debolezze e l’incapacità di relazionarsi con il popolo militare, con il soldato, con chi rischia la propria vita per assicurare la longevità del potere di un capo. La differenza fra un leader combattente e un leader che combatte con le vite degli altri è la condivisione dei rischi e la sensibilità di comprendere lo stato d’animo dei soldati e valutare il loro livello di coinvolgimento in battaglia. Ma oggi, guardando anche ai leader militari, ciò diventa sempre più difficile.
La distanza che intercorre fra una gerarchia militare di vertice e il soldato è pari alla distanza che intercorre fra il caporale Wilson e il potere politico che rappresenta e di cui ne è strumento. Tuttavia si può anche combattere con ciò che si ha, ma ci vogliono delle buone ragioni per farlo e dei capi che siano convincenti. Probabilmente nemmeno le gerarchie americane sono state così convincenti o prossime ai soldati per affidare ad un caporale la responsabilità di rappresentare la vulnerabilità di un esercito unico al mondo. Ma ci consoliamo. Il caporale Wilson non è un caso, è solo un dejà vu oggi autorevole perché a stelle e strisce, e per questo può considerarsi fortunato.
In altre latitudini altrettanto democratiche avremmo certamente qualificato un intervento simile quasi come una fattispecie penalmente rilevante, nella migliore delle ipotesi almeno disciplinarmente. Un attentato all’efficienza logistica della pianificazione, soprattutto in materia di predisposizione a difesa di luoghi e di dotazioni, delegando ad autorità diverse da quella militare la soluzione di problemi logistici rappresentati in modo “no military correct”. Senza avere la sensibilità che il punto di vista di chi combatte è la valutazione migliore per aumentare la capacità militare di un dispositivo considerato nella sua efficienza solo dopo la prima tragedia utile.
Il caporale Wilson nella sua semplicità ha dimostrato quanto sia importante dotare la politica di concretezza e di capacità di decidere tecnicamente l’impiego della forza e di tutelare le proprie risorse al di là di tutto con il meglio dell’equipaggiamento che si può offrire. Non si va in guerra con ciò che si ha. Una risposta del genere può essere compresa e accettata da chi è costretto a combattere per difendersi ma non da chi deve condurre una guerra preventiva. Chi attacca deve avere i mezzi per condurre una campagna di cui ne dovrebbe conoscere i rischi, valutarne la durata e prefiggersi dei risultati conseguibili nell’immediato.
La risposta di Rumsfeld è la peggiore risposta che un capo militare abbia mai dato nel corso della storia militare ai propri uomini. È la risposta che di fronte all’imprevedibilità di eventi non considerati spiazza il leader scoprendone le debolezze e l’incapacità di relazionarsi con il popolo militare, con il soldato, con chi rischia la propria vita per assicurare la longevità del potere di un capo. La differenza fra un leader combattente e un leader che combatte con le vite degli altri è la condivisione dei rischi e la sensibilità di comprendere lo stato d’animo dei soldati e valutare il loro livello di coinvolgimento in battaglia. Ma oggi, guardando anche ai leader militari, ciò diventa sempre più difficile.
La distanza che intercorre fra una gerarchia militare di vertice e il soldato è pari alla distanza che intercorre fra il caporale Wilson e il potere politico che rappresenta e di cui ne è strumento. Tuttavia si può anche combattere con ciò che si ha, ma ci vogliono delle buone ragioni per farlo e dei capi che siano convincenti. Probabilmente nemmeno le gerarchie americane sono state così convincenti o prossime ai soldati per affidare ad un caporale la responsabilità di rappresentare la vulnerabilità di un esercito unico al mondo. Ma ci consoliamo. Il caporale Wilson non è un caso, è solo un dejà vu oggi autorevole perché a stelle e strisce, e per questo può considerarsi fortunato.
In altre latitudini altrettanto democratiche avremmo certamente qualificato un intervento simile quasi come una fattispecie penalmente rilevante, nella migliore delle ipotesi almeno disciplinarmente. Un attentato all’efficienza logistica della pianificazione, soprattutto in materia di predisposizione a difesa di luoghi e di dotazioni, delegando ad autorità diverse da quella militare la soluzione di problemi logistici rappresentati in modo “no military correct”. Senza avere la sensibilità che il punto di vista di chi combatte è la valutazione migliore per aumentare la capacità militare di un dispositivo considerato nella sua efficienza solo dopo la prima tragedia utile.