La polverizzazione delle masse sciite, e la dubbia capacità di guidare l’Iraq verso una transizione politica dall’alto, giunge all’epilogo e mostra la debolezza della credibilità politica di una missione militare. Non si tratta di essere oggi dalla parte dei pacifisti o degli interventisti ad ogni costo. La realtà, come giustamente notato nell’editoriale apparso su La Stampa del 6 aprile, è che il vortice del caos coinvolge tutti e chiunque dal caos cerchi di salvarsi. Così premesse storiche e di sistema, trasferendo l’analisi sul terreno iracheno, il rischio di una guerra interetnica e interreligiosa fra sciiti e sunniti non poteva e non doveva essere una novità per l’entourage occidentale.
La capacità operativa dimostrata dall’ala di Abu Musaq al-Zarqawi di Al-Qaeda non è altro che il risultato della frammentazione e della delega di azione attribuita a ogni singola componente dell’arcipelago del radicalismo islamico. In realtà, la stabilizzazione successiva dell’Iraq non poteva rappresentare una facile passeggiata dopo la fine di una guerra-lampo che sorprendentemente doveva essere condotta su altri presupposti e altri motivi: l’esistenza delle armi di distruzione di massa. Oggi, trovarsi di fronte la responsabilità della ricostruzione politica e sociale, prim’ancora che economica, dell’Iraq diventa il vero campo di confronto dell’Occidente in Iraq e nel Medio Oriente in genere.
La possibilità di una destabilizzazione successiva all’instaurazione di un nuovo modello rappresentativo e democratico, forse, di autorità a Baghdad è lo spazio, il teatro probabile di un confronto fra modelli e tradizioni etnico-religiose di fronte al rischio di non riuscire a dotare la nuova istituzione di credibilità diffusa, di consenso e di autorevolezza nelle comunità che compongono il patchwork iracheno. Così il rischio di una federalizzazione può rappresentare un pericolo per gli altri Stati del Medio Oriente caratterizzati dalla presenza di significative comunità etniche. Ma la polverizzazione dell’Iraq in una balcanizzazione tutta mediorientale, attraverso l’autonomia politica di ogni singolo spazio umanizzato, dotato di identità propria, potrebbe essere il risultato di una escalation di violenza interna dove di fronte al confronto fra sciiti e sunniti e alla volontà curda di inserirsi nel caos per attribuirsi l’autonomia mancata, verrebbero meno le ragioni antiche dell’esistenza dell’Iraq come Stato.
La possibilità di una destabilizzazione successiva all’instaurazione di un nuovo modello rappresentativo e democratico, forse, di autorità a Baghdad è lo spazio, il teatro probabile di un confronto fra modelli e tradizioni etnico-religiose di fronte al rischio di non riuscire a dotare la nuova istituzione di credibilità diffusa, di consenso e di autorevolezza nelle comunità che compongono il patchwork iracheno. Così il rischio di una federalizzazione può rappresentare un pericolo per gli altri Stati del Medio Oriente caratterizzati dalla presenza di significative comunità etniche. Ma la polverizzazione dell’Iraq in una balcanizzazione tutta mediorientale, attraverso l’autonomia politica di ogni singolo spazio umanizzato, dotato di identità propria, potrebbe essere il risultato di una escalation di violenza interna dove di fronte al confronto fra sciiti e sunniti e alla volontà curda di inserirsi nel caos per attribuirsi l’autonomia mancata, verrebbero meno le ragioni antiche dell’esistenza dell’Iraq come Stato.