La guerra infinita contro un nemico invisibile continua a trattenere l’attenzione dell’opinione pubblica sulla situazione afgana riproponendoci, dopo l’undici settembre dello scorso anno, la virtuale apparenza, per effetto della distanza fisica, di una concreta crisi che avvicina il mondo occidentale ed i suoi destini sempre di più verso l’Oriente, quasi come se dovessimo un debito di riconoscenza mai pagato a culture e tradizioni antiche superate dalla dinamica mercantile. Un luogo, uno spazio difficilmente dominabile con le tecnologie più sofisticate dove, presi dalla ricerca di un Bin Laden che sfugge alle tecnologie più sofisticate, la partita fra capacità di leadership mondiale di Washington e vecchie culture di potere si gioca in un domino pericolosamente intriso di odio e di intolleranza, fra mondi che non complementarizzatisi nel processo storico dell’ultimo secolo rischiano di scontrarsi in un confronto aperto e tutto campo. Le logiche globali non risparmiano nessuno.
La polverizzazione degli interessi e la difficoltà di ristrutturare un sistema internazionale privo di un ordine proprio delegato di fatto all’amministrazione Bush, depotenziando sempre di più il ruolo delle Nazioni Unite, rendono gli stessi Stati Uniti deboli e con loro chi crede nella politica di potenza. Deboli nei confronti di un nemico che si autoreferenzia con le proprie azioni ed i propri simboli. La guerra contro Saddam, le incertezze occidentali sul conflitto annunciato rappresentano i primi sintomi di una confusione di interessi e di obiettivi immediati che un modello collaudato, ma realizzato su logiche di mercato, esprime nel momento in cui il mondo sfugge di mano.
La necessità di un nemico, autorappresentato se necessario, diventa un’esigenza ineluttabile, una giustificazione imprescindibile per poter realizzare sistemi di gestione del potere, democratici se vogliamo, per partecipazione delle comunità rappresentate, ma funzionali ad interessi di controllo di mercati. Il Golfo, dalla guerra alla coesistenza pacifica con un Saddam Hussein che non si è voluto eliminare perchè funzionale, la sua esistenza a garantire un disequilibrio capace di stabilizzare le politiche di intervento nell’area. Un credito aperto all’Occidente che prima arricchisce gli emiri, e lo steso Saddam in chiave antiraniana, e poi ne impoverisce le masse creandosi il nemico peggiore. Il petrolio. Risorse strategiche dalle proprie valenze politiche che muove gli interessi delle multinazionali, destinatarie della diplomazia economica del mondo occidentale e che garantiscono la persistenza delle lobbies e il mantenimento dello status quo.
Le risorse degli Stati Uniti, la dipendenza dal petrolio, la necessità di controllare l’oleodotto che attraversa Qandahar, l’amicizia con Putin e l’avvicinamento all’Alleanza Atlantica di Mosca aprono le porte del mercato occidentale, realizzando un mercato alternativo e di riequilibrio nell’essere la Russai un paese produttore non-OPEC. Per questo, in sostanza, forse Bin Laden è vivo o morto, e probabilmente che il presidente dell’Afghanistan sia Karzai e il mandante dell’attentato sia Hekmatyar, prima antisovietico, combattente contro Bin Laden, e oggi ridefinito nell’ottica talebana, non penso sia estremamente interessante.
È singolare, però, che logiche di mercato si incontrino, nell’azione politica più estrema, in un piccolo bazar. Ma per quanto piccolo,il mercato di Kandahar ci ricorda nella confusione e nell’incertezza delle azioni e delle idee, nella mistificazione degli obiettivi, nel segreto delle diplomazie, fra un Bin Laden di turno e un attentato apparentemente insignificante, che chi controlla il mercato mondiale controlla il mondo… ma chi controllerà il grande bazar delle materie prime ed energetiche dominerà il mondo.