Un massacro deliberato non può avere giustificazioni politiche e, pertanto, avallare giuridicamente attenuanti processuali. Un regime dittatoriale, soltanto perché lesivo delle libertà fondamentali degli individui e votato a celebrare il mito della personalità mortificando diritti e dignità dei cittadini, non è certamente l’espressione migliore di una volontà democratica a cui ispirare il governo di una comunità attraverso la partecipazione di tutti. Leggendo i commenti di ieri sulla sentenza possibile, e sulla scelta della corte, può essere comprensibile ritenere necessario che la pronuncia del tribunale iracheno sul futuro del dittatore fosse l’espressione di un senso di giustizia comune, che in verità non sembra avvalorato da un governo credibile e soprattutto capace. E può essere anche comprensibile la scelta di non sottoporre Saddam Hussein alla Corte Penale Internazionale.
Questo perché nella volontà di Washington era un punto fermo il controllo del processo di stabilizzazione dell’Iraq coinvolgendo il governo di Baghdad anche sulla sorte dell’ex-dittatore, e perché ciò avrebbe significato ammettere l’essenzialità e il ruolo di un’Istituzione, la Corte Penale Internazionale, della quale gli Stati Uniti non ne hanno ratificato lo Statuto. Tuttavia, pur accettando le tesi così sostenute - e in parte non aderenti al mandato della Corte alla quale, se adita, allora si sarebbe dovuto rinviare a giudizio dell’Alto Consesso tutto l’entourage di Saddam Hussein e non il singolo dittatore - può essere ragionevole credere che la scelta di affidare ad un tribunale nazionale la giurisdizione di un crimine rientri semplicemente nella sfera interna di un Paese sovrano quale dovrebbe essere l’Iraq.
E proprio di fronte ad un simile aspetto, di semplicità di previsione giurisdizionale e di opportunità politica, nella sentenza di condanna a morte manca qualunque ragionevole argomentazione per credere che altrettanto politicamente la decisione così presa sia stata la scelta migliore. In realtà nelle imputazioni a carico non dovrebbe esserci solo l’eccidio di Dujail con la morte di circa centocinquanta sciiti, c’è il massacro dei curdi e le vittime di regime che hanno costellato di sangue una stagione molto lunga della storia del popolo iracheno. Ciò nonostante, non ci si deve dimenticare che la sopravvivenza, sino a qualche decennio fa, della dittatura baasista di Saddam Hussein rientrava nella logica di opportunità strategica dell’Occidente.
Lo stesso Occidente che oggi crede che con la condanna a morte possa liberarsi di un’eredità difficile da gestire, un’eredità che nemmeno una guerra priva di soluzione politica e militare è riuscita a definire e risolvere. La verità è che nel Medio Oriente più prossimo, di fronte ad una dilagante minaccia del radicalismo ideologico islamico, la vera partita si gioca sull’affermazione di alcuni valori che sembrano privi di universalità, di condivisione. Una condanna a morte, per quanto il dramma del popolo iracheno possa giustificare una simile scelta, non può non guardare a quanto accade in un Paese a sovranità relativa, quotidianamente. Ciò che si osserva è che il valore della vita, il supremo rispetto dell’altro siano privi di una percezione comune del significato del non uccidere.
Così, non è con una condanna a morte che si è affermato un sentimento di giustizia e di rispetto. Di fronte ad un attacco quotidiano alla vita altrui condotto nelle strade dell’Iraq, una sentenza di condanna non assume né il carattere di giustizia soddisfatta né rappresenta un monito di deterrenza. Il disvalore che si può associare all’offesa della vita altrui, che si realizza giorno dopo giorno in Iraq, è così minimo che una condanna a morte non afferma nulla. Nulla di più che dare risalto ad un ennesimo sentimento di vendetta, di un odio che si riproduce nelle comunità irachene e che nessuna capacità militare o politica riuscirà a contenere senza una maturazione di valori riconosciuti nell’intimo delle coscienze degli individui.
Una condanna a morte può avere diversi significati, alcuni anche comprensibili se si vuole. Ma può anche rispondere a valutazioni di opportunità politica. Non condannare a morte Saddam Hussein, per quanto siano esecrabili i suoi atti e le angherie commesse nei confronti del popolo e delle comunità dell’Iraq, sarebbe stata in questo momento una necessaria dimostrazione di forza. Mantenere in vita Saddam Hussein, ancorché punito con l’ergastolo, sarebbe stato un gesto di fermezza ideologica, di affermazione del valore della vita in un Paese nel quale la vita non assume alcun significato di tutela, di rispetto, ma diventa una merce di consumo per le logiche di potere di un terrore diffuso negli animi di ogni cittadino. Significava dare alla vita il valore di diritto universale che trionfa al di sopra di ogni altro valore riconosciuto, al di sopra di un sentimento di vendetta consumato nella morte sterile di un dittatore; una morte ormai inutile anche per l’Occidente, ma con il rischio di trasformarlo da criminale in martire.
E proprio di fronte ad un simile aspetto, di semplicità di previsione giurisdizionale e di opportunità politica, nella sentenza di condanna a morte manca qualunque ragionevole argomentazione per credere che altrettanto politicamente la decisione così presa sia stata la scelta migliore. In realtà nelle imputazioni a carico non dovrebbe esserci solo l’eccidio di Dujail con la morte di circa centocinquanta sciiti, c’è il massacro dei curdi e le vittime di regime che hanno costellato di sangue una stagione molto lunga della storia del popolo iracheno. Ciò nonostante, non ci si deve dimenticare che la sopravvivenza, sino a qualche decennio fa, della dittatura baasista di Saddam Hussein rientrava nella logica di opportunità strategica dell’Occidente.
Lo stesso Occidente che oggi crede che con la condanna a morte possa liberarsi di un’eredità difficile da gestire, un’eredità che nemmeno una guerra priva di soluzione politica e militare è riuscita a definire e risolvere. La verità è che nel Medio Oriente più prossimo, di fronte ad una dilagante minaccia del radicalismo ideologico islamico, la vera partita si gioca sull’affermazione di alcuni valori che sembrano privi di universalità, di condivisione. Una condanna a morte, per quanto il dramma del popolo iracheno possa giustificare una simile scelta, non può non guardare a quanto accade in un Paese a sovranità relativa, quotidianamente. Ciò che si osserva è che il valore della vita, il supremo rispetto dell’altro siano privi di una percezione comune del significato del non uccidere.
Così, non è con una condanna a morte che si è affermato un sentimento di giustizia e di rispetto. Di fronte ad un attacco quotidiano alla vita altrui condotto nelle strade dell’Iraq, una sentenza di condanna non assume né il carattere di giustizia soddisfatta né rappresenta un monito di deterrenza. Il disvalore che si può associare all’offesa della vita altrui, che si realizza giorno dopo giorno in Iraq, è così minimo che una condanna a morte non afferma nulla. Nulla di più che dare risalto ad un ennesimo sentimento di vendetta, di un odio che si riproduce nelle comunità irachene e che nessuna capacità militare o politica riuscirà a contenere senza una maturazione di valori riconosciuti nell’intimo delle coscienze degli individui.
Una condanna a morte può avere diversi significati, alcuni anche comprensibili se si vuole. Ma può anche rispondere a valutazioni di opportunità politica. Non condannare a morte Saddam Hussein, per quanto siano esecrabili i suoi atti e le angherie commesse nei confronti del popolo e delle comunità dell’Iraq, sarebbe stata in questo momento una necessaria dimostrazione di forza. Mantenere in vita Saddam Hussein, ancorché punito con l’ergastolo, sarebbe stato un gesto di fermezza ideologica, di affermazione del valore della vita in un Paese nel quale la vita non assume alcun significato di tutela, di rispetto, ma diventa una merce di consumo per le logiche di potere di un terrore diffuso negli animi di ogni cittadino. Significava dare alla vita il valore di diritto universale che trionfa al di sopra di ogni altro valore riconosciuto, al di sopra di un sentimento di vendetta consumato nella morte sterile di un dittatore; una morte ormai inutile anche per l’Occidente, ma con il rischio di trasformarlo da criminale in martire.