"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

L’esecuzione di Saddam Hussein

Uccidere Saddam Hussein: l’ultimo errore di una guerra sbagliata.

Impiccagione di Saddam HusseinNon era una novità che il processo a Saddam Hussein finisse come è finito con una condanna a morte. Ma non doveva essere una novità, se coerenza e saggezza fossero valori irrinunciabili da utilizzare nelle analisi e nelle scelte politiche della comunità democratica, una ferma opposizione all’esecuzione da parte dell’Occidente. Si, perché la morte del dittatore non ha soddisfatto nessuna aspettativa di giustizia e di diritto dal momento che, nello spazio umano e culturale di una comunità islamica - divisa storicamente su prospettive indiscutibilmente non solo religiose, ma di interpretazione dell’autorità politica nell’Islam - ciò riporta nella dimensione rivendicativa legittimità morali e politiche che si confrontano in una situazione di caos e violenza diffusa.

Un caos già esistente e che, nel passato, trovava soltanto nel sanguinoso regime del rais l’unico criterio d’ordine, non condivisibile, ma che rispecchiava il vero sentimento di diversità che sopravvive ancora oggi nella pericolosa divisione tra sunniti e sciiti all’interno di una non omogenea concezione islamica del potere politico. Un regime tollerato, nel passato recente, dallo stesso Occidente ritenendolo funzionale a essere l’utile argine all’affermarsi del regime teocratico di Teheran. L’Occidente, non impedendo l’esecuzione di Saddam Hussein, nel suo apparente rispetto di una giurisdizione nazionale sovrana, ha così posto in secondo piano il valore della vita riconosciuto nelle democrazie evolute e che, per questo, le distingue dai regimi totalitari e criminali. Ha perso l’opportunità di non prestarsi a soddisfare il senso di vendetta e di effimero successo politico della classe dirigente irachena.

Una classe dirigente che non può costruire il futuro dell’Iraq su frammenti di identità religiose prive di un’idea condivisa di un comune destino ancorché professati in una medesima fede. Con la morte del rais il 2007 sarà un anno che non vedrà l’abbattimento della violenza in una terra viziata da faziosità evidenti. Ci troveremo di fronte ad un futuro che non vedrà realizzarsi a breve il processo di democratizzazione in Medio Oriente. Un futuro che, soprattutto, non offrirà della democrazia occidentale (e americana quindi) quell’immagine di strumento politico di organizzazione sociale caratterizzata dal rispetto di valori e diritti assoluti che, senza rinunciare alla pretesa punitiva, pone al centro della sua essenza il rispetto della vita umana. Una pretesa non dettata da opportunità di parte o da egoismi di fede, ma da un senso laico di rispetto della condizione umana al di sopra di tutto.

Ciò che ci si chiede ancora oggi, dopo un conflitto incerto nei risultati, e al di là della pena di morte sancita ed eseguita, è perché gli iracheni ieri, prima della caduta del regime, non siano stati in grado di sovvertire un ordine totalitario. Perché, insomma, un dittatore sia stato al potere per così lungo tempo se non avesse goduto di un certo consenso a suo favore e una compiacenza politica da parte della comunità internazionale, o di alcuni attori della comunità mondiale. Con l’esecuzione di Saddam Hussein per l’Occidente sarà più difficile parlare di democrazia al mondo arabo, del valore della vita, del significato aberrante della vendetta, condannare gli attentati suicidi in nome dell’inviolabilità della vita altrui, della vittima e del carnefice.

La verità è che non era opportuno politicamente offrire agli sciiti la vittima sacrificale di una diaspora culturale e religiosa fondata sul mancato riconoscimento dell’autorità califfale appartenente alla tradizione sunnita che si perde, e non si risolve, nel tempo. Non era opportuno, in un quadro di coerente strategia politica da parte dell’Occidente euroamericano offrire l’occasione di trasformare in un nuovo martire un criminale nella memoria del quale giustificare domani nuove occasioni di conflitto contro i valori dell’Occidente. Quei valori di democrazia e di rispetto della vita in nome dei quali si era giunti in Iraq ad affermarli per poi gettarli al vento, giustiziando un inutile dittatore, un criminale politico non meno responsabile di altri pari - ancora in vita o morti in un letto di ospedale come Pinochet - di delitti e violenze in nome di una politica di prevaricazione.

Il conflitto mediorientale, le vicende palestinesi, la crisi di legittimazione politica in Asia Centrale, quanto le difficoltà di stabilizzare la regione del Golfo, dimostrano come la democrazia pur ritenendola un modello vincente, non sia ancora esportabile se non prima si affronta la vera natura della democrazia che si vorrebbe creare. Ovvero su quali diritti garantiti e inviolabili, compreso il rispetto della vita, si vorrà costruire un’architettura di principio da cui far derivare legittimamente un sistema di potere e di leadership scevro da vincoli religiosi e autoritarismi radicali. Un sistema di potere condiviso e inserito all’interno di una comunità democratica e laica prescindendo, una volta per tutte, da qualunque opportunismo politico e strategico del momento.

Quell’opportunismo politico, e quella superficialità di previsione dell’Occidente euroamericano, che ha permesso a Saddam Hussein di mantenere ed esercitare il proprio potere per decenni. Quella superficialità strategica e politica di un Occidente che poi ha celebrato la fine di un’epoca con l’esecuzione di un uomo non più necessario, senza riflettere sul significato, sul simbolo e sul tempo che sarà diverso per tutti, e per l’Occidente stesso, nel Medio Oriente quotidiano. Quel quotidiano nel quale la vita di chiunque ha ancora valore molto relativo, nelle stragi e nel sacrificio di ogni giorno.

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