Gli attentati in India degli ultimi giorni riportano sullo schermo immagini di violenza, commenti diversi e superficiali su quanto avviene in Asia Centrale. Come spesso avviene, pensando di dimenticare qualche scomoda evidenza, ci riteniamo ancora una volta capaci di comprendere culture e modi di agire che vanno oltre la nostra volontà. Oltre la sicurezza di riuscire a contenere una deriva fondamentalista ancorata al destino di governi ritenuti amici se non, poi, in una repentina manovra di ripensamento strategico, considerarli poco affidabili se non addirittura pericolosi e non più funzionali agli obiettivi prefissati. È successo così per Saddam Hussein e oggi accade anche per il Pakistan.
In questa confusa ricerca di una coerente azione politica e strategica dell’Occidente in Asia Centrale, non si comprende quale proxy war si stia giocando, quale ruolo assume Islamabad nel favorire o meno l’instabilità della regione, quale obiettivo intende perseguire soprattutto in chiave di contenimento della crescita dell’India, potenza economica sempre più emergente. Ma, soprattutto, per conto di chi si gioca una partita così sottile di guerra surrogata utilizzando movimenti terroristici la cui eterogeneità delle sigle rischia di polverizzare e rendere più credibile l’uso strumentale della violenza, piuttosto che far credere alla genuinità di un vero profilo religioso. In questo gioco strategico complesso, che si svolge nel cuore del mondo e a ridosso della “nuova” via delle risorse energetiche, tutto sembra rispondere ad un disegno che mira sia a depotenziare la solidità dell’India quanto a minare la credibilità di un Occidente sempre più impantanato in una guerra senza uscita, ostaggio di se stesso, in un Afghanistan paralizzato dalla deriva politica e militare, risultato di un’incapacità di chiarirsi obiettivi e interessi.
Obiettivi ed interessi che sono sottesi ad uno sforzo militare che ogni giorno richiede lo spostamento di capacità militari ed economiche lontane dalle nazioni che compongono la coalizione occidentale ed atlantica. Dopo gli attentati alle forze occidentali in Afghanistan e con la ripresa del terrorismo in India, che propone una nuova sigla che si aggiunge alla costellazione dei movimenti antioccidentali come il Lashkar e-Taiba[1], ci si dovrebbe chiedere quanto la questione relativa al Kashmir sia ancora solo una crisi limitata al Pakistan e all’India, alle ragioni islamiche contro gli indù, ai soli interessi dei due Stati nel controllo delle risorse idriche. O quanto, nel coinvolgimento degli occidentali, non vi sia una strategia diversa, più sottile e sinergica, indirizzata a garantire l’instabilità della regione asiatica nel suo complesso.
Se il Lashkar e-Taiba matura e si consolida come movimento antagonista di matrice islamica nell’esperienza della guerriglia talebana in Afghanistan, dopo l’attentato in India diventa difficile e riduttivo limitare ogni possibile analisi alla sola questione del movimento in sé o del Kashmir quale causa. Come presentato da alcuni analisti, è vero che la guerra afghana rimane senza dubbio uno dei fronti della contrapposizione tra l’India e il Pakistan. Ed è altrettanto vero che sul terreno del Kashmir Islamabad intende giocare la propria capacità di profondità strategica intesa ad assicurarsi una sorta di spazio che la garantisca da ogni possibile tentativo di Nuova Delhi di dare corso, a sua volta, ad una propria profondità difensiva verso Islamabad.
Tuttavia, però, ci si dovrebbe chiedere in quale dimensione geopolitica regionale, e per conto di quali interessi, il Pakistan, stato nucleare, intenda giocare una simile partita e se ricorrendo a forme di strategia indiretta come sono i movimenti terroristici. Se per gli Stati Uniti Islamabad veniva presentata come un valido alleato nella lotta contro il terrorismo, dimostrando la corta memoria di quanto il Pakistan fosse stato funzionale alla crescita del movimento dei talebani, oggi diventa quanto meno imbarazzante dare credibilità ad un regime che certamente non brilla per chiarezza o per intima fedeltà verso l’Occidente a cui offre solo una porta delle tante aperte in Asia. Se l’islamismo è stato un efficace strumento per rendere più “giustificabile” il confronto con l’India, oggi qualcuno ne vorrebbe raccogliere i frutti senza esserne coinvolto, soprattutto nel momento di maggior debolezza politica del grande alleato, gli Stati Uniti, che vivono una transizione dell’orizzonte strategico da Bush ad Obama.
Guardare complessivamente a tutta la regione centroasiatica pensando, una volta per tutte, che non si tratta solo di un attentato fine a se stesso è l’unica “profondità” di analisi che ci resta per interpretare chi è il mandante, perché, e per chiarire cosa l’Occidente si aspetta dalla propria proiezione politica e militare in Asia Centrale. Dovremmo chiederci, senza aspettare altri attentati, in India o altrove all’ombra di Al-Qaeda o di qualunque altro variopinto gruppo terrorista, quale sia il vero gioco strategico in corso e quali gli attori protagonisti. Quale sia la vera ragione di un’instabilità endemica che si presenta come il vero e più certo risultato strategico che si vuole ottenere nell’area dal momento che, la coalizione occidentale e le comunità che la rappresentano, nonostante i nobili propositi, rischia di fare nuovamente la figura dello spettatore/vittima suo malgrado.
Un posto in prima fila garantito sino all’ennesimo attacco dimenticandoci che, asimmetrico o meno che sia il rapporto tra unità e forme combattenti, il terrorismo è e resta uno strumento di strategia indiretta. Uno strumento non sconosciuto, in passato, né all’esperienza occidentale, né a quella sovietica, né a quella di altri regimi tutt’altro che democratici o così sensibili alla crescita e alla democratizzazione delle proprie comunità. Uno strumento efficace per creare un’instabilità dei termini strategici a favore di chi nell’impasse altrui mira a disegnare il proprio nuovo profilo geostrategico in una regione le cui risorse energetiche interessano a molti altri “nuovi attori”.
Obiettivi ed interessi che sono sottesi ad uno sforzo militare che ogni giorno richiede lo spostamento di capacità militari ed economiche lontane dalle nazioni che compongono la coalizione occidentale ed atlantica. Dopo gli attentati alle forze occidentali in Afghanistan e con la ripresa del terrorismo in India, che propone una nuova sigla che si aggiunge alla costellazione dei movimenti antioccidentali come il Lashkar e-Taiba[1], ci si dovrebbe chiedere quanto la questione relativa al Kashmir sia ancora solo una crisi limitata al Pakistan e all’India, alle ragioni islamiche contro gli indù, ai soli interessi dei due Stati nel controllo delle risorse idriche. O quanto, nel coinvolgimento degli occidentali, non vi sia una strategia diversa, più sottile e sinergica, indirizzata a garantire l’instabilità della regione asiatica nel suo complesso.
Se il Lashkar e-Taiba matura e si consolida come movimento antagonista di matrice islamica nell’esperienza della guerriglia talebana in Afghanistan, dopo l’attentato in India diventa difficile e riduttivo limitare ogni possibile analisi alla sola questione del movimento in sé o del Kashmir quale causa. Come presentato da alcuni analisti, è vero che la guerra afghana rimane senza dubbio uno dei fronti della contrapposizione tra l’India e il Pakistan. Ed è altrettanto vero che sul terreno del Kashmir Islamabad intende giocare la propria capacità di profondità strategica intesa ad assicurarsi una sorta di spazio che la garantisca da ogni possibile tentativo di Nuova Delhi di dare corso, a sua volta, ad una propria profondità difensiva verso Islamabad.
Tuttavia, però, ci si dovrebbe chiedere in quale dimensione geopolitica regionale, e per conto di quali interessi, il Pakistan, stato nucleare, intenda giocare una simile partita e se ricorrendo a forme di strategia indiretta come sono i movimenti terroristici. Se per gli Stati Uniti Islamabad veniva presentata come un valido alleato nella lotta contro il terrorismo, dimostrando la corta memoria di quanto il Pakistan fosse stato funzionale alla crescita del movimento dei talebani, oggi diventa quanto meno imbarazzante dare credibilità ad un regime che certamente non brilla per chiarezza o per intima fedeltà verso l’Occidente a cui offre solo una porta delle tante aperte in Asia. Se l’islamismo è stato un efficace strumento per rendere più “giustificabile” il confronto con l’India, oggi qualcuno ne vorrebbe raccogliere i frutti senza esserne coinvolto, soprattutto nel momento di maggior debolezza politica del grande alleato, gli Stati Uniti, che vivono una transizione dell’orizzonte strategico da Bush ad Obama.
Guardare complessivamente a tutta la regione centroasiatica pensando, una volta per tutte, che non si tratta solo di un attentato fine a se stesso è l’unica “profondità” di analisi che ci resta per interpretare chi è il mandante, perché, e per chiarire cosa l’Occidente si aspetta dalla propria proiezione politica e militare in Asia Centrale. Dovremmo chiederci, senza aspettare altri attentati, in India o altrove all’ombra di Al-Qaeda o di qualunque altro variopinto gruppo terrorista, quale sia il vero gioco strategico in corso e quali gli attori protagonisti. Quale sia la vera ragione di un’instabilità endemica che si presenta come il vero e più certo risultato strategico che si vuole ottenere nell’area dal momento che, la coalizione occidentale e le comunità che la rappresentano, nonostante i nobili propositi, rischia di fare nuovamente la figura dello spettatore/vittima suo malgrado.
Un posto in prima fila garantito sino all’ennesimo attacco dimenticandoci che, asimmetrico o meno che sia il rapporto tra unità e forme combattenti, il terrorismo è e resta uno strumento di strategia indiretta. Uno strumento non sconosciuto, in passato, né all’esperienza occidentale, né a quella sovietica, né a quella di altri regimi tutt’altro che democratici o così sensibili alla crescita e alla democratizzazione delle proprie comunità. Uno strumento efficace per creare un’instabilità dei termini strategici a favore di chi nell’impasse altrui mira a disegnare il proprio nuovo profilo geostrategico in una regione le cui risorse energetiche interessano a molti altri “nuovi attori”.
[1] Lashkar e-Taiba. Creatura politica di Hafiz Mohammed Sa'id, creata all’inizio degli anni Novanta e operante soprattutto nelle regioni di Jammu e del Kashmir, al confine tra Pakistan e India, essa è composta soprattutto da radicali religiosi pakistani di scuola sunnita ultraortodossa. Molti dei membri di tale organizzazione sono stati protagonisti di azioni terroristiche condotte contro l'India con l’obiettivo di sottrarre il Kashmir dall’amministrazione indiana.