La frontiera bioetica della coscienza
Esiste una frontiera bioetica della coscienza? Il problema dei traumi da post-conflitto che colpisce buona parte dei soldati statunitensi ha fatto si che il Pentagono si interessasse alla elaborazione di un farmaco capace di intervenire sulla memoria attraverso la “cura” di quei disordini post-traumatici che sono l’effetto dei traumi di guerra. Una sindrome con la quale, dal Vietnam in poi sino in Iraq, gli Stati Uniti sono costretti a confrontarvisi.
La fragilità del soldato non è una variabile consueta di cui se ne tiene conto prima di una missione. Certo, per alcune operazioni si scelgono i più forti, i più determinati e convinti del ruolo, magari opportunamente ideologizzati. Tuttavia, nell’analisi dell’impiego delle forze non sempre tale regola soddisfa le aspettative se non in termini di risultato, quanto meno in termini di riutilizzabilità nel breve periodo dell’uomo-soldato.
La guerra in Iraq, ma ancor prima le campagne militari in Indocina, ha accelerato l’interesse dei militari verso l’analisi delle emotività del soldato, ridefinendo il ruolo della ricerca degli effetti psicologici della guerra non solo verso l’avversario - riconducendo a tecniche di lotta fondate sul condizionamento strumentale della volontà altrui con azioni psico-offensive - ma verso la dimensione interiore del combattente. Una dimensione importante che se sembra non essere così determinante di fronte al combattente per ideologia, è certamente fondamentale per il combattente impiegato per volontà altrui, per scelte non condivise magari, ma che ha l’obbligo di obbedire per dovere di professionalità.
La guerra in Iraq, l’esempio del caporale Wilson, dimostrano quanto il soldato sia soprattutto un uomo che deve alla propria visione del fare e del volere il risultato della sua azione. La guerra è violenza, è abbattimento di regole nelle regole di un conflitto che cerca l’annientamento dell’avversario quale fondamento della vittoria. La guerra è un confronto che impegna volontà e determinazione del singolo individuo e dove il fermo-immagine della coscienza, se non metabolizzato in una forte introiezione delle motivazioni del conflitto, rischia di diminuire la tensione operativa dell’operatore con il risultato di renderlo facile preda del nemico. Tuttavia la possibilità di abbattere il ricordo, di regolare scientificamente il rendimento e il reimpiego di un soldato evitando che diventi ostaggio della propria memoria e della propria coscienza non rappresenta l’alternativa ad una migliore e continua utilizzazione di risorse umane rinnovate negli animi.
La rimozione scientifica del ricordo rischia di abbattere la capacità di autocoscienza del soldato e quella parte di capacità di iniziativa e di discrimine che nel condizionamento operativo gli consentono di scegliere il modo migliore per ottenere un risultato. L’abbattimento del ricordo, insomma, determina una formattazione della memoria e con essa delle capacità di analisi che, per quanto limitate nel soldato che è tenuto ad obbedire, sono determinanti nell’impiego. Altrimenti si potrebbe pensare ad una riprogrammazione della mente dell’uomo avvicinandolo ad un cybor in divisa, senza sentimenti, senza emozioni, senza capacità di correggere un ordine errato o di perseguire un obiettivo in assenza di ordini specifici. La “rielaborazione del ricordo” degli orrori di una guerra certamente è un problema.
Ma proporre una “pillola contro i brutti ricordi” che faccia superare il trauma da conflitto non risolve il dramma del vissuto che nasce, spesso, da una mancata condivisione delle motivazioni di una guerra, della legittimità o della necessità della violenza. La differenza fra una memoria normale e la straordinarietà di un evento che trasforma le emozioni del soldato è data nella volontà di combattere, che non è solo espressione di un obbligo ma di una scelta condivisa. Così, se il risultato che si vorrà ottenere è quello non di far dimenticare ma di trasformare questa memoria “speciale” in una memoria “normale”, il rischio che si correrà è proprio quello di cambiare le memorie alterandone l’equilibrio emotivo ancor più del trauma.
Un mutamento di percezione della realtà che, al di là dell’abbattimento di ogni sensibilità, renderà il soldato sempre più cinico e non gestibile dagli stessi comandanti che non potranno incidere proprio su quella parte della coscienza e della memoria che serve a motivare e che trasforma in soldato-macchina il soldato-uomo che combatte e accetta di morire se l’ideale è condiviso al di là degli ordini ricevuti.
La guerra in Iraq, l’esempio del caporale Wilson, dimostrano quanto il soldato sia soprattutto un uomo che deve alla propria visione del fare e del volere il risultato della sua azione. La guerra è violenza, è abbattimento di regole nelle regole di un conflitto che cerca l’annientamento dell’avversario quale fondamento della vittoria. La guerra è un confronto che impegna volontà e determinazione del singolo individuo e dove il fermo-immagine della coscienza, se non metabolizzato in una forte introiezione delle motivazioni del conflitto, rischia di diminuire la tensione operativa dell’operatore con il risultato di renderlo facile preda del nemico. Tuttavia la possibilità di abbattere il ricordo, di regolare scientificamente il rendimento e il reimpiego di un soldato evitando che diventi ostaggio della propria memoria e della propria coscienza non rappresenta l’alternativa ad una migliore e continua utilizzazione di risorse umane rinnovate negli animi.
La rimozione scientifica del ricordo rischia di abbattere la capacità di autocoscienza del soldato e quella parte di capacità di iniziativa e di discrimine che nel condizionamento operativo gli consentono di scegliere il modo migliore per ottenere un risultato. L’abbattimento del ricordo, insomma, determina una formattazione della memoria e con essa delle capacità di analisi che, per quanto limitate nel soldato che è tenuto ad obbedire, sono determinanti nell’impiego. Altrimenti si potrebbe pensare ad una riprogrammazione della mente dell’uomo avvicinandolo ad un cybor in divisa, senza sentimenti, senza emozioni, senza capacità di correggere un ordine errato o di perseguire un obiettivo in assenza di ordini specifici. La “rielaborazione del ricordo” degli orrori di una guerra certamente è un problema.
Ma proporre una “pillola contro i brutti ricordi” che faccia superare il trauma da conflitto non risolve il dramma del vissuto che nasce, spesso, da una mancata condivisione delle motivazioni di una guerra, della legittimità o della necessità della violenza. La differenza fra una memoria normale e la straordinarietà di un evento che trasforma le emozioni del soldato è data nella volontà di combattere, che non è solo espressione di un obbligo ma di una scelta condivisa. Così, se il risultato che si vorrà ottenere è quello non di far dimenticare ma di trasformare questa memoria “speciale” in una memoria “normale”, il rischio che si correrà è proprio quello di cambiare le memorie alterandone l’equilibrio emotivo ancor più del trauma.
Un mutamento di percezione della realtà che, al di là dell’abbattimento di ogni sensibilità, renderà il soldato sempre più cinico e non gestibile dagli stessi comandanti che non potranno incidere proprio su quella parte della coscienza e della memoria che serve a motivare e che trasforma in soldato-macchina il soldato-uomo che combatte e accetta di morire se l’ideale è condiviso al di là degli ordini ricevuti.