"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

Arafat: un simbolo? Non solo

Yasser ArafatL’uscita improvvisa di scena di Yasser Arafat, al di là di ogni ottimistica speranza di una reversibilità fisica, determina un’irreversibilità politica che assegna alla storia il palestinese per antonomasia, il leader incontestabile della creazione di un’identità politica e popolare di un popolo ancora senza Stato. Di fronte ad un caos regionale di evidente criticità per il futuro della pace nel mondo anche la scelta di Ariel Sharon di prestarsi al dialogo su un simulacro di accordo, abbandonando Gaza, non è una concessione né un’operazione di filantropismo politico. È un prezzo politico ed una scelta obbligata ponderata proprio di fronte alla possibilità di un vuoto di potere che la fine di Arafat determinerà in Medio Oriente, tanto se non ancor di più di quanto non si sia già verificato in Iraq.

Oggi la consapevolezza che la pacificazione in Medio Oriente passi da Baghdad quanto la pace e la democrazia dovrebbero affermarsi in Israele e nei Territori governati dall’Autorità Nazionale Palestinese, diventa l’incubo per l’Occidente che guarda al dopo Arafat come ad una verifica storica sull’efficacia di una guerra condotta senza legittimità internazionale e senza coordinare sforzi diplomatici e politici verso la soluzione della questione palestinese. Di fronte alla scomparsa di Arafat, di fronte alla debole leadership che ne eredita il difficile compito di amalgamare le diverse anime del movimentismo palestinese, nessun azzardo politico è ormai possibile. E questo Sharon lo ha compreso chiaramente.

Washington, nel secondo mandato di G.W.Bush, continua a puntare sulla guerra al terrorismo come global war la cui sconfitta rappresenterebbe, insieme al ritiro degli israeliani dai Territori Occupati, la manifestazione più immediata che si possa offrire un futuro di stabilità al Medio Oriente. Per Israele, però, si tratta di vincere come nazione l’ultima vera guerra: quella per la pace nella coesistenza. Una vittoria da conseguire con una capacità al dialogo decisiva, compiuta proprio attraverso un pragmatismo che in Sharon impera più degli altri leader israeliani che approfitta della crisi di leadership e della necessità di accreditare Abu Ala come nuovo interlocutore.

La realtà vera è che si dovrà superare il limite della stessa road map. Quel limite per il quale, secondo Kissinger, la carta stradale non è altro che “ un compromesso regionale su obiettivi generici”. Un compromesso che non stabilisce criteri di verifica, che non stabilisce, neanche, le conseguenze che eventuali violazioni dovessero comportare a capo di una delle parti resasi inadempiente. Né tantomeno vengono fissati i termini e gli atti di ogni singola fase rendendola, così, scontata e debole sin dall’inizio. Per questo la morte di Yasser Arafat diventa un momento per ridefinire uno start up della pace che dipende sempre di più dalla possibilità di decidere preliminarmente cosa sia giusto ed equo per entrambe le parti. Un’equa soluzione per la quale un’alternativa di uno Stato palestinese provvisorio è fuori da qualunque logica giuridica, politica e sociale salvo ripristinare una formula protettorale che richiede, però, un’estesa legittimità internazionale. L’esistenza di Israele è ad un bivio.

La sopravvivenza dello Stato ebraico non può giocarsi sul veto posto al ritorno dei profughi in Palestina, tanto quanto il prendere tempo percorrendo la strada della pace da parte di Arafat, nel tentativo di logorare la resistenza politica di Tel Aviv, ha dimostrato la consapevolezza della leadership dell’Autorità Nazionale Palestinese di trovarsi anch’essa scomodamente di fronte ad un scelta: l’ennesima e la più difficile. Una scelta per la quale la volontà di Sharon di abbandonare Gaza si interseca con un atteggiamento interlocutorio dei movimenti di Hamas e della Jihad islamica che assumono un’unità strategica di azione politica volta a verificare rispettivamente la vera volontà di Israele e la forza e la capacità politica di Abu Ala nel gestire post-Arafat.

Una sorta di attesa che si respira nella vicenda della fine di un simbolo che ci pone di fronte alla fragilità delle parti e che dimostra l’assenza di una seppur minima fiducia reciproca che mina, in questo modo, qualunque tentativo di realizzare le basi di una coesistenza fra le comunità. Quel tentativo mancato che favorirebbe una spiralizzazione della violenza attribuendo alla regola di Hamas, dell’Intifada generalizzata, la gestione del vuoto di potere in Palestina. Hamas ha chiaro l’obiettivo: disarticolare l’unità interna del movimento palestinese e, per questo, in passato, ha offerto tregue limitate, condizionate nel tempo, sulle quali scommette la tenuta o il ritorno al caos magari a spese della vecchia Al-Fatah di Yasser Arafat. Ed è per questo che il simbolo oggi lascia il posto alla politica vera.

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