La convinzione occidentale che il centro del mondo sia l’Europa perde ogni giorno il senso della sua assolutezza per relativizzarsi in un clima di disordine regionale. Un disordine a cui nessun vertice dell’Unione europea potrà porre rimedio senza aprire, quest’ultima, una propria linea politica diretta a partecipare in prima persona al processo di pace, in un Mediterraneo sempre più allargato a nuove autonomie ed istanze politiche e sempre più ristretto in termini di possibilità di azione politico-diplomatica per gli interessi economici che le opportunità di investimento e di approvvigionamento energetico in questa area determinano.
Sono trascorsi ben nove anni dalla dichiarazione di principio del settembre 1993, fortemente voluta dal presidente Clinton e orientata a concretizzare le aspettative di Camp David raccogliendo l’eredità di pensiero di Sadat e quella politica di Bush padre. Ma, nonostante ciò, sembra che la storia si sia fermata nel riproporsi di scenari di guerra e di conflittualità diffusa nelle più strette vie di Ramallah e dintorni. Scenari che pensavamo, illudendoci, che una virtuale azione politica di un altrettanto depotenziata Autorità Nazionale Palestinese potesse evitare. Ma così non è stato, non lo è e non lo sarà. Il Mediterraneo, isola infelice, diventa il teatro, storico, di un confronto.
Si ripropone ogni giorno con le sue quotidiane contraddizioni quasi a ricordarci che non esiste un’isola del mondo ma tante isole, ognuna fortemente connessa, per bisogni e necessità, con altre isole, con altri popoli, con altre culture e modelli di vita. Si contano le opportunità e si soffrono gli squilibri. Si provano le capacità diplomatiche e si saggiano le alternative militari. Si usano strumenti democratici per risolvere le crisi e si subisce la violenza maturata e ragionata nelle spire del fondamentalismo di Hamas o nell’irriducibile politica di potenza di Sharon. Si guarda ai Territori Occupati e si pensa alle possibilità di una riorganizzazione economica della Palestina con un piano Marshall neocoloniale inventato magari ad Arcore.
Si assedia Arafat e si interdice, così, ogni possibilità di dialogo con i palestinesi più integralisti. Si respinge il confronto fra attacchi e ritorsioni e si favorisce una diaspora politica e la sua trasposizione violenta in un mondo senza confini. Si confronta, in altre parole, in un piccolo spazio fisico, un mondo organizzato su regole di mercato e su princìpi di democrazia rappresentativa e di potenza con un modello fondato su istanze politico-sociali di classi deboli escluse dalle opportunità economiche. Il rischio della polarizzazione delle classi sociali e del pericolo per la stabilità dell’area è quasi un male del secolo che tutti quanti noi condividiamo oggi, forse senza rendercene ormai, ancor più gravemente perché malati d’abitudine, conto.
È un problema di comunicazione, di opportunità, economiche e politiche. Opportunità tali che riescano ad offrire un modello di dialogo fra Occidente ed Oriente che proprio nei Territori Occupati potrebbe ridefinire una nuova era di riavvicinamento, rimodellando in termini di convivenza civile comunità divise da secoli di conflittualità diffusa e di sangue che hanno fatto trionfare la morte sulla vita. Sarà Pasqua. E lo sarà solo per le colombe che credono nell’azione politica di crescita nel rispetto delle differenze, della storia delle singole comunità e dei diritti dei popoli, palestinesi ed israeliani compresi. Colombe che guardano lontano in un’ottica di confronto politico e non di mercato. I falchi della Pasqua e del mondo della globalizzazione e della neo-colonizzazione non avranno sorprese se non quella di non vivere, e perdere, un’altra Pasqua, un’altra opportunità di pace.