L’arco di crisi si è diffuso man mano in tutto il Maghreb. Esso ha coinvolto dopo la Tunisia, l’Algeria, l’Egitto, la granitica Libia e anche l’Iran, dimostrando che non vi erano, e non vi sono, luoghi o regimi che prima o poi potevano o possono resistere alle richieste di cambiamento di popolazioni governate da tempo ai margini delle possibilità che economie più liberali e redditi più equamente distribuibili potevano offrire. Economie più aperte se accettate da chi avrebbe dovuto rinunciare ad un governo oligarchico e favorite da chi, l’Occidente, ne avrebbe potuto condizionare le politiche con argomenti diversi piuttosto che un appeasement di circostanza che ne ha garantito la sopravvivenza sino ad oggi di modelli rigidi e nepotistici di accesso alla ricchezza.
Oggi dovremmo dire, guardando al di là delle nostre coste, che ciò che si osserva è il risultato di una politica estera miope, limitata all’interesse del momento, con un’Europa che non ha mai fatto decollare una piena partnership euromediterranea e politiche di prossimità che non sono andate oltre il limite dialettico di Barcellona. E allora, indirizzando lo sguardo verso il nostro orizzonte, dovremmo affermare che quando l’Occidente non promuove, prendendo l’iniziativa, modelli di democratizzazione vicini al nostro modo di essere ma favorendone la crescita tra le comunità, quando si legittimano autocrazie solo per convenienza e poi le si abbandona, quando non le si possono più difendere -politicamente- allora si deve mettere in preventivo che c’è sempre qualcuno pronto ad occuparsene. Nel gioco politico volto alla sopravivenza del potere, economico, politico o personale che sia, le rivoluzioni sono utilissime per legittimare chi si mette a capo della transizione.
Quanto succede, insomma, continua ad essere il risultato del nostro limitato modo di interpretare gli altri, della scarsa propensione europea nel voler dialogare solo con il comodo potente di turno. Ma, ancor più gravemente, frutto del non essere stati in grado di prevenire integralismi vari offrendo alle popolazioni stili e opportunità migliori di vita. Oggi il primo che arriva nel caos che imperversa rischia di riuscire a guidare una rivoluzione che poteva dare buoni frutti se i presupposti fossero stati diversi: se l’Occidente avesse favorito la transizione dai regimi autocratici a democrazie partecipative.
E’ vero. Se si volesse individuare un possibile fruitore del caos potremmo dire che all’Iran tutto questo farebbe gioco. Per Teheran ciò potrebbe significare realizzare due obiettivi. Il primo, più immediato, spostare la crisi interna per evitare segni di debolezza quale unico regime islamico. Il secondo, poter giocare la parte dell’unica potenza islamica a cui fa sponda Hamas in Libano affermandosi, dopo la Siria, come l’interlocutore possibile per ristabilire un ordine non solo in Medio Oriente -venendo meno figure come Mubarak e Gheddafi- dominando, così, ma anche in uno spazio sino a ieri escluso dalla regione di interesse geopolitico di Teheran: il Nord Africa. Ma se l’Occidente fosse interessato a ristabilire un ordine duraturo per garantirsi una stabilità certa e non virtuale, dovrebbe essere, una volta per tutte, abile nel giocare davvero di contropiede, perché il vero problema da risolvere è la causa delle rivolte e all’interno di queste trovare la soluzione. Ovvero, offrire una via di uscita alle popolazioni e evitare il pericolo che qualcuno sul caos tenterà di imporre un ordine diverso da quello democratico.
Il vero problema, infatti, è che le economie dei Paesi del Maghreb, come dei Paesi arabi in generale, è l’essere economie ingessate sulla rendita petrolifera. Una rendita che fa incassare le società petrolifere e i poteri economici nazionali che si identificano nei poteri politici. Ciò significa che non vi è mai stata alcuna ricaduta della ricchezza che entrava nelle casse degli Stati sulla popolazione in termini di servizi e di sostegno ai redditi delle famiglie. Se a questo si aggiunge che le autocrazie nel mondo arabo si sono ormai adagiate, e consolidate, su modelli familistici di successione -e non si tratta delle case regnanti che hanno altra storia come l’Arabia Saudita e la Giordania- il quadro degli esclusi è più che chiaro.
E’ evidente che in questa corsa a gestire le rivolte vi siano già attori interessati in movimento, come detto, l’Iran e la Siria, ma anche la Cina - che tenta di assumere il controllo economico essendo già presente con proprie società petrolifere e detenendo la maggior offerta di lavoro nel settore edilizio nei Paesi del Nord Africa. L’unica via di uscita è che Unione Europea, Stati Uniti e Russia rielaborino una strategia comune per gestire e orientare la transizione verso modelli democratici e di dialogo isolando pericolose derive estremistiche, utilizzando come ponte culturale e politico l’unico e solo possibile ad oggi: la Turchia di Erdogan.
Quanto succede, insomma, continua ad essere il risultato del nostro limitato modo di interpretare gli altri, della scarsa propensione europea nel voler dialogare solo con il comodo potente di turno. Ma, ancor più gravemente, frutto del non essere stati in grado di prevenire integralismi vari offrendo alle popolazioni stili e opportunità migliori di vita. Oggi il primo che arriva nel caos che imperversa rischia di riuscire a guidare una rivoluzione che poteva dare buoni frutti se i presupposti fossero stati diversi: se l’Occidente avesse favorito la transizione dai regimi autocratici a democrazie partecipative.
E’ vero. Se si volesse individuare un possibile fruitore del caos potremmo dire che all’Iran tutto questo farebbe gioco. Per Teheran ciò potrebbe significare realizzare due obiettivi. Il primo, più immediato, spostare la crisi interna per evitare segni di debolezza quale unico regime islamico. Il secondo, poter giocare la parte dell’unica potenza islamica a cui fa sponda Hamas in Libano affermandosi, dopo la Siria, come l’interlocutore possibile per ristabilire un ordine non solo in Medio Oriente -venendo meno figure come Mubarak e Gheddafi- dominando, così, ma anche in uno spazio sino a ieri escluso dalla regione di interesse geopolitico di Teheran: il Nord Africa. Ma se l’Occidente fosse interessato a ristabilire un ordine duraturo per garantirsi una stabilità certa e non virtuale, dovrebbe essere, una volta per tutte, abile nel giocare davvero di contropiede, perché il vero problema da risolvere è la causa delle rivolte e all’interno di queste trovare la soluzione. Ovvero, offrire una via di uscita alle popolazioni e evitare il pericolo che qualcuno sul caos tenterà di imporre un ordine diverso da quello democratico.
Il vero problema, infatti, è che le economie dei Paesi del Maghreb, come dei Paesi arabi in generale, è l’essere economie ingessate sulla rendita petrolifera. Una rendita che fa incassare le società petrolifere e i poteri economici nazionali che si identificano nei poteri politici. Ciò significa che non vi è mai stata alcuna ricaduta della ricchezza che entrava nelle casse degli Stati sulla popolazione in termini di servizi e di sostegno ai redditi delle famiglie. Se a questo si aggiunge che le autocrazie nel mondo arabo si sono ormai adagiate, e consolidate, su modelli familistici di successione -e non si tratta delle case regnanti che hanno altra storia come l’Arabia Saudita e la Giordania- il quadro degli esclusi è più che chiaro.
E’ evidente che in questa corsa a gestire le rivolte vi siano già attori interessati in movimento, come detto, l’Iran e la Siria, ma anche la Cina - che tenta di assumere il controllo economico essendo già presente con proprie società petrolifere e detenendo la maggior offerta di lavoro nel settore edilizio nei Paesi del Nord Africa. L’unica via di uscita è che Unione Europea, Stati Uniti e Russia rielaborino una strategia comune per gestire e orientare la transizione verso modelli democratici e di dialogo isolando pericolose derive estremistiche, utilizzando come ponte culturale e politico l’unico e solo possibile ad oggi: la Turchia di Erdogan.