"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

Trappola in alto mare

Ci sono momenti della storia di un Paese che non si possono chiudere all’interno di un orizzonte limitato da passioni politiche, interessi economici o ragioni politiche, se mai ve ne fossero, quando ad esser messa in discussione è la credibilità e la forza di una nazione di essere protagonista in una comunità allargata qual è quella degli Stati. Nello stallo tra Francia e Italia la via d’uscita ricercata ed auspicata ottenuta con l’assunzione del comando delle operazioni dalla Nato non è una soluzione. O, meglio, è la solita soluzione a metà. Qui non si tratta di condurre una guerra diplomatica contro Parigi o affermare una supremacy, mai voluta, nel Mediterraneo anche quando sarebbe stato molto, ma molto necessario, in anni passati.

Oggi è in discussione una capacità complessiva di azione dell’Occidente che rischia, per l’ennesima volta, di muoversi con le sue solite incertezze, con i suoi dubbi derivati dal fatto che non ha -e non ha voluto avere confidando sempre nell’ombrello degli Stati Uniti- la percezione che tutto ciò che è Mediterraneo è sopravvivenza fisica ed economica del nostro continente. In questa corsa alla tribuna le analisi si sprecano sull’onda della celebrazione dell’ovvio, storico e meno storico, e delle possibilità militari: queste ultime mi sembrano evidenze senza novità. In verità Parigi -consapevole dell’agire degli altri partner- aveva individuato i rischi di un insuccesso nel vuoto d’azione e di comando che avrebbe reso vano e tardivo ogni ingaggio militare sia esso umanitariamente giustificabile o solo per ragioni tattico-strategiche di fronte ad un principio di immediatezza della risposta che, per essere efficace, non può avere i caratteri della tardività una volta soddisfatte le ragioni giuridiche e stabilitane la legittimità.

La storia non finisce mai di insegnare. Il tempo, la capacità di decidere, di evitare di lasciare all’avversario possibilità di riorganizzarsi o di ridefinire proprie capacità operative, di mutare i piani, di utilizzare in termini propagandistici le frasi e le discussioni altrui sono aspetti fondamentali per avviare con successo un’operazione militare a cui deve seguire una chiara visione del post-conflitto. Questo la Francia lo sa. La stampa italiana si spreca ancora oggi nell’associare al Kosovo quanto avviene in Libia ma questa è ormai un’altra storia. E non sono nemmeno originali le analisi di alcuni quotidiani nei quali un mondo senza leadership sembra essere la garanzia del caos. Non si tratta, oggi, di affermare leadership o meno ma di difendere, se possibile, l’unica leadership necessaria e sostenibile: quella del dettato della Carta delle Nazioni Unite, il valore che si attribuisce al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e le possibilità che si hanno per difenderle, un diritto che va al di là dell’arbitrio del singolo Stato. Il problema non è la Francia.

Il problema è l’indecisione, il non dare segni di unità di indirizzo e di scelte sul come condurre un’operazione così complessa e delicata se non altro perché questa volta l’Occidente è messo alla prova sull’uscio di casa. Incertezze e rischi di ondivaghe leggerezze politiche rischiano di favorire proprio gli avversari che non si vedono. Quegli attori che si dividono tra il wahhabismo di Al Qaeda e lo sciismo delle masse di matrice iraniana. Attori che si affacceranno con sempre minor discrezione alla finestra del “nostro” mare, come han fatto nella guerra all’Iraq, per valutare come, quando e in che termini impossessarsi del futuro politico della Libia e, dalla Libia, verso gli altri Stati. Attori che tentano ancora una volta di disegnare un sogno geopolitico che non si è sopito nelle rivoluzioni verdi di Teheran di cui nessuno ne parla più o nella capacità operativa di un fronte integralista. Un fronte, quest’ultimo, che approfittando proprio di questi momenti di (dis)attenzione sulle operazioni e di litigi tra occidentali tenta di riorganizzarsi per trasformare la Libia, domani, in un nuovo Libano, ancor più pericoloso, più insidioso, per la sicurezza delle nostre comunità. E su questa minaccia non c’è gioco al comando che tenga.

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