Ci sono momenti della storia di un Paese che non si possono chiudere all’interno di un orizzonte limitato da passioni politiche, interessi economici o ragioni politiche, se mai ve ne fossero, quando ad esser messa in discussione è la credibilità e la forza di una nazione di essere protagonista in una comunità allargata qual è quella degli Stati. Nello stallo tra Francia e Italia la via d’uscita ricercata ed auspicata ottenuta con l’assunzione del comando delle operazioni dalla Nato non è una soluzione. O, meglio, è la solita soluzione a metà. Qui non si tratta di condurre una guerra diplomatica contro Parigi o affermare una supremacy, mai voluta, nel Mediterraneo anche quando sarebbe stato molto, ma molto necessario, in anni passati.
Oggi è in discussione una capacità complessiva di azione dell’Occidente che rischia, per l’ennesima volta, di muoversi con le sue solite incertezze, con i suoi dubbi derivati dal fatto che non ha -e non ha voluto avere confidando sempre nell’ombrello degli Stati Uniti- la percezione che tutto ciò che è Mediterraneo è sopravvivenza fisica ed economica del nostro continente. In questa corsa alla tribuna le analisi si sprecano sull’onda della celebrazione dell’ovvio, storico e meno storico, e delle possibilità militari: queste ultime mi sembrano evidenze senza novità. In verità Parigi -consapevole dell’agire degli altri partner- aveva individuato i rischi di un insuccesso nel vuoto d’azione e di comando che avrebbe reso vano e tardivo ogni ingaggio militare sia esso umanitariamente giustificabile o solo per ragioni tattico-strategiche di fronte ad un principio di immediatezza della risposta che, per essere efficace, non può avere i caratteri della tardività una volta soddisfatte le ragioni giuridiche e stabilitane la legittimità.
La storia non finisce mai di insegnare. Il tempo, la capacità di decidere, di evitare di lasciare all’avversario possibilità di riorganizzarsi o di ridefinire proprie capacità operative, di mutare i piani, di utilizzare in termini propagandistici le frasi e le discussioni altrui sono aspetti fondamentali per avviare con successo un’operazione militare a cui deve seguire una chiara visione del post-conflitto. Questo la Francia lo sa. La stampa italiana si spreca ancora oggi nell’associare al Kosovo quanto avviene in Libia ma questa è ormai un’altra storia. E non sono nemmeno originali le analisi di alcuni quotidiani nei quali un mondo senza leadership sembra essere la garanzia del caos. Non si tratta, oggi, di affermare leadership o meno ma di difendere, se possibile, l’unica leadership necessaria e sostenibile: quella del dettato della Carta delle Nazioni Unite, il valore che si attribuisce al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e le possibilità che si hanno per difenderle, un diritto che va al di là dell’arbitrio del singolo Stato. Il problema non è la Francia.
Il problema è l’indecisione, il non dare segni di unità di indirizzo e di scelte sul come condurre un’operazione così complessa e delicata se non altro perché questa volta l’Occidente è messo alla prova sull’uscio di casa. Incertezze e rischi di ondivaghe leggerezze politiche rischiano di favorire proprio gli avversari che non si vedono. Quegli attori che si dividono tra il wahhabismo di Al Qaeda e lo sciismo delle masse di matrice iraniana. Attori che si affacceranno con sempre minor discrezione alla finestra del “nostro” mare, come han fatto nella guerra all’Iraq, per valutare come, quando e in che termini impossessarsi del futuro politico della Libia e, dalla Libia, verso gli altri Stati. Attori che tentano ancora una volta di disegnare un sogno geopolitico che non si è sopito nelle rivoluzioni verdi di Teheran di cui nessuno ne parla più o nella capacità operativa di un fronte integralista. Un fronte, quest’ultimo, che approfittando proprio di questi momenti di (dis)attenzione sulle operazioni e di litigi tra occidentali tenta di riorganizzarsi per trasformare la Libia, domani, in un nuovo Libano, ancor più pericoloso, più insidioso, per la sicurezza delle nostre comunità. E su questa minaccia non c’è gioco al comando che tenga.
La storia non finisce mai di insegnare. Il tempo, la capacità di decidere, di evitare di lasciare all’avversario possibilità di riorganizzarsi o di ridefinire proprie capacità operative, di mutare i piani, di utilizzare in termini propagandistici le frasi e le discussioni altrui sono aspetti fondamentali per avviare con successo un’operazione militare a cui deve seguire una chiara visione del post-conflitto. Questo la Francia lo sa. La stampa italiana si spreca ancora oggi nell’associare al Kosovo quanto avviene in Libia ma questa è ormai un’altra storia. E non sono nemmeno originali le analisi di alcuni quotidiani nei quali un mondo senza leadership sembra essere la garanzia del caos. Non si tratta, oggi, di affermare leadership o meno ma di difendere, se possibile, l’unica leadership necessaria e sostenibile: quella del dettato della Carta delle Nazioni Unite, il valore che si attribuisce al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e le possibilità che si hanno per difenderle, un diritto che va al di là dell’arbitrio del singolo Stato. Il problema non è la Francia.
Il problema è l’indecisione, il non dare segni di unità di indirizzo e di scelte sul come condurre un’operazione così complessa e delicata se non altro perché questa volta l’Occidente è messo alla prova sull’uscio di casa. Incertezze e rischi di ondivaghe leggerezze politiche rischiano di favorire proprio gli avversari che non si vedono. Quegli attori che si dividono tra il wahhabismo di Al Qaeda e lo sciismo delle masse di matrice iraniana. Attori che si affacceranno con sempre minor discrezione alla finestra del “nostro” mare, come han fatto nella guerra all’Iraq, per valutare come, quando e in che termini impossessarsi del futuro politico della Libia e, dalla Libia, verso gli altri Stati. Attori che tentano ancora una volta di disegnare un sogno geopolitico che non si è sopito nelle rivoluzioni verdi di Teheran di cui nessuno ne parla più o nella capacità operativa di un fronte integralista. Un fronte, quest’ultimo, che approfittando proprio di questi momenti di (dis)attenzione sulle operazioni e di litigi tra occidentali tenta di riorganizzarsi per trasformare la Libia, domani, in un nuovo Libano, ancor più pericoloso, più insidioso, per la sicurezza delle nostre comunità. E su questa minaccia non c’è gioco al comando che tenga.