Potremmo mai commentare se non additandolo come blasfemico, oltre che criminale, quanto accaduto in Kenya ieri? O come già successo qualche mese fa e come succede ancora laddove il radicalismo afferma la sua perfetta misconoscenza dei valori che afferma per alcuni e viola per altri e, tra questi, proprio il più importante: la vita.
Potremmo mai indignarci abbastanza, forse più di un insuccesso in economia o nelle nostre piccole politiche da bottega e non sentirci, invece, assolutamente colpiti da un gesto che è molto più grave di un conflitto, di uno scontro anche fisico per affermare interessi di altro tipo? Uccidere il sapere, violare la vita di un uomo, di qualunque razza o etnia, a qualunque latitudine solo perché ha la grave colpa di studiare, di voler conoscere è quanto di più abominevole ed empio si possa compiere verso il genere umano. Di fronte a ciò non vi è alcun libro sacro, o divinità rivelata o altra mistificante autorità celeste che possa giustificare un simile crimine.
L’attentato al college keniota, l’uccisione di più di cento studenti non può non indignare tutta la comunità internazionale. Perché non è una ritorsione contro un movimento politico di opposizione ad un qualsivoglia regime. Ma perché è deliberatamente un attacco a chi studia, a chi vuol sapere, a chi ricerca gli strumenti per poter essere protagonista al di là della propria fede, cristiana o mussulmana che sia. Al-Shabaab ha dimostrato ancora una volta che una religiosità manifestamente criminale, alla stessa stregua di qualunque autoritarismo, ha bisogno dell’oscurantismo e della paura per affermarsi.
Essa ricerca la chiusura di ogni fonte di conoscenza, tende alla negazione dell’accesso al sapere, vuole la distruzione di ciò che è simbolo di civiltà come avvenuto a Mosul in Iraq. Per questo, quanto accaduto in Kenya non riguarda solo l’Africa. Riguarda il mondo intero perché è un attentato chiaro contro l’umanità. Perché è il più chiaro rifiuto di accettare qualunque opportunità di crescita che si realizza nella superiorità della conoscenza di sé e dell’altro in una storia che è sempre più comune e condivisa.
Il radicalismo islamico vuole annullare la coscienza e la conoscenza di ognuno. Cerca di rimodellare assetti sociali fragili partendo da interpretazioni artefatte manipolate da una volontà di Fede nata su presupposti storici e culturali che non vogliono adattarsi ai cambiamenti. Perché accettare un adattamento significherebbe mettere in discussione quegli aspetti totalizzanti che legittimano poteri personali. Quei poteri che inseguono la sopraffazione dell’altro imponendo un pensiero unico, assolutizzante che legittima se stesso avvalendosi dell’ignoranza, della privazione della conoscenza.
Il radicalismo di Al-Shaabab, come tutti gli integralismi, è una minaccia chiara alle diverse opinioni e alla civiltà nel senso più ampio e condivisibile del termine. E’ il prodotto di una visione distorta della storia e del sapere che si impossessa pericolosamente delle coscienze dei più deboli usando la religione per distruggere anziché per creare. Un mondo islamico anno zero non può e non potrà mai affermarsi qualunque sarà il prezzo di sangue da pagare. Ciò che è urgente, per il cosiddetto mondo civile, è fermare l’ingiusto aggressore, combattere una religiosità deviata nel suo offendere colui a cui si rivolge: l’uomo nella sua natura, nella sua storia, nella sua cultura, nel suo diritto di sapere. Una lotta che non ha confini perché ci coinvolge tutti, anche nelle lontane e meno fortunate latitudini africane.
L’attentato al college keniota, l’uccisione di più di cento studenti non può non indignare tutta la comunità internazionale. Perché non è una ritorsione contro un movimento politico di opposizione ad un qualsivoglia regime. Ma perché è deliberatamente un attacco a chi studia, a chi vuol sapere, a chi ricerca gli strumenti per poter essere protagonista al di là della propria fede, cristiana o mussulmana che sia. Al-Shabaab ha dimostrato ancora una volta che una religiosità manifestamente criminale, alla stessa stregua di qualunque autoritarismo, ha bisogno dell’oscurantismo e della paura per affermarsi.
Essa ricerca la chiusura di ogni fonte di conoscenza, tende alla negazione dell’accesso al sapere, vuole la distruzione di ciò che è simbolo di civiltà come avvenuto a Mosul in Iraq. Per questo, quanto accaduto in Kenya non riguarda solo l’Africa. Riguarda il mondo intero perché è un attentato chiaro contro l’umanità. Perché è il più chiaro rifiuto di accettare qualunque opportunità di crescita che si realizza nella superiorità della conoscenza di sé e dell’altro in una storia che è sempre più comune e condivisa.
Il radicalismo islamico vuole annullare la coscienza e la conoscenza di ognuno. Cerca di rimodellare assetti sociali fragili partendo da interpretazioni artefatte manipolate da una volontà di Fede nata su presupposti storici e culturali che non vogliono adattarsi ai cambiamenti. Perché accettare un adattamento significherebbe mettere in discussione quegli aspetti totalizzanti che legittimano poteri personali. Quei poteri che inseguono la sopraffazione dell’altro imponendo un pensiero unico, assolutizzante che legittima se stesso avvalendosi dell’ignoranza, della privazione della conoscenza.
Il radicalismo di Al-Shaabab, come tutti gli integralismi, è una minaccia chiara alle diverse opinioni e alla civiltà nel senso più ampio e condivisibile del termine. E’ il prodotto di una visione distorta della storia e del sapere che si impossessa pericolosamente delle coscienze dei più deboli usando la religione per distruggere anziché per creare. Un mondo islamico anno zero non può e non potrà mai affermarsi qualunque sarà il prezzo di sangue da pagare. Ciò che è urgente, per il cosiddetto mondo civile, è fermare l’ingiusto aggressore, combattere una religiosità deviata nel suo offendere colui a cui si rivolge: l’uomo nella sua natura, nella sua storia, nella sua cultura, nel suo diritto di sapere. Una lotta che non ha confini perché ci coinvolge tutti, anche nelle lontane e meno fortunate latitudini africane.