
Robert McNamara
Sciascia ci lasciò un monito, ispirato molto alle vicende italiane. Vicende mai molto chiare e terribilmente opache laddove il potere si muoveva con la disinvoltura di un fantasma. Per lo scrittore siciliano non vi erano dubbi che […] La sicurezza del potere si fonda sull'insicurezza dei cittadini […]. Una considerazione drammatica, ma vera. Che vale nell’affermarsi di un potere interno quanto internazionale.
Il golpe turco, o il tentativo di putsch militare dall’andamento insolito e dall’epilogo, per quanto drammatico, da operetta non ha nulla a che fare con la storia turca dove l’esercito, nel suo essere custode della laicità di uno Stato ricostruito proprio dai militari dopo il crollo dell’impero ottomano, si sarebbe ben diversamente comportato in previsione di un capovolgimento radicale dell’assetto di governo. La realtà che osserviamo è cosa ben diversa. Al di là delle tesi complottistiche o di fantapolitica vi sono alcuni elementi che sono da considerare e che, in fondo, disegnano la politica di Erdogan da tempo.
L’ambiguità del presidente turco dimostrata nella gestione della questione curda quanto nel cercare di rendere vantaggioso il sostenere di fatto lo Stato islamico interponendosi tra Stati Uniti e Russia a caccia del miglior offerente, pur ufficialmente dichiarando il contrario, non potevano non avere un epilogo. E non tanto in un tentativo di golpe, serio o faceto che fosse, ma nella possibilità di valutare per Erdogan -alla ricerca di consolidare la sua leadership quale nuovo sultano- quale fosse il mezzo migliore, ed il tavolo più redditizio, sul quale porre le proprie carte. Se fosse meglio puntare su una re-islamizzazione progressiva della Turchia per arginare il fenomeno del radicalismo islamico e, anzi, porsi a paladino di un nuovo impero della fede controbilanciando le ambizioni saudite, oppure ancorarsi all’Occidente nella sua dimensione atlantica, guardando agli Stati Uniti come padrini. O, ancora, se -dopo le sconfitte delle coalizioni d’occasione anti-Isis e anti-Assad messe in campo da Washington, e il ridursi delle energie americane nella regione sostituite da una prevalenza di iniziativa russa senza precedenti– non fosse meglio cambiare ancora una volta tavolo, cospargendosi di polvere la testa, chiedendo scusa per l’abbattimento del jet russo, e inchinarsi allo zar di tutte le Russie.
Certo, ognuno gioca con le proprie capacità e le mosse diventano da decise ad insicure se chi muove i fili non ha ben chiare le idee. Erdogan sa che la sua leadership, per quanto uscita vincitrice dalle precedenti presidenziali, non è certo delle più solide. Ricorrere alla fede cercando di ricostituzionalizzare la Turchia in chiave meno laica e più islamica tende a porlo sul piano del difensore di una identità, ricercando consenso nel populismo religioso e autolegittimandosi, in questo modo, a eliminare l’opposizione nelle sue diverse forme.
Ma i conti con l’oste che ha finito il vino, Obama, e il nuovo oste a Est, Putin, lo renderanno ben presto vittima di se stesso. D’altra parte, nella scacchiera nella quale si muove al di là del Bosforo, ambizioni e ambiguità presenteranno un loro conto dal momento che, se da un lato oggi il sultano mette fuori gioco gli alleati di ieri, cioè gli Stati Uniti attribuendo loro un ruolo nell’aver favorito il golpe, dall’altro non può sperare che la Russia dello zar abbia a cuor leggero dimenticato di avere ancora un credito da riscuotere, e con gli interessi, dalle parti di Ankara. La partita a scacchi insomma è aperta, ma Erdogan, per quanto scaltro e preso da se stesso, non ha buona dimestichezza con questo gioco per riuscire a non pagarne ancora una volta i costi nei prossimi mesi.