Ci sono momenti della storia che tornano senza bussare alla porta. A volte sono il risultato di un processo lento nel quale le soluzioni ai conflitti, alle crisi, ai vuoti di potere stentano a compiersi perché l’interesse geopolitico del momento muta i binari sui quali la storia, o una certa storia dei popoli, ha cercato di instradare il proprio cammino.
Ci sono anche momenti nei quali la sprovvedutezza se non la superbia dei leader tende loro delle trappole pericolose, allorquando si crede che si possa affidare la propria serenità nell’affermare una certa egemonia nel mondo più prossimo ritenendo che si possano sempre piegare i sentimenti e le speranze altrui ai capricci propri. Ecco, allora, che in una sempre più confusa per quanto compulsiva ricerca di una spiegazione di quanto accaduto e accade oggi e dal 7 ottobre ancora una volta anche le date tornano ad avere un loro significato. Il 7 ottobre, ad esempio, è una data non certo trascurabile né trascurata dalla storia non solo per il suo significato religioso, si tratta del giorno della vittoria nella battaglia di Lepanto dove l’Occidente trovò se stesso contro l’Islam ottomano, vincendo una sfida - che non avrebbe poi più avuto quartiere nel tempo e in Terra Santa nei secoli successivi - per vedere affermare un dominio economico europeo e ancora per qualche anno nel Mediterraneo. E un mese, ottobre, nel quale il 23 si celebrerà il Kippur, quella ricorrenza ebraica che vide insanguinarsi 50 anni per un attacco a sorpresa condotto dalla forze coalizzate del mondo arabo e che alla fine Israele riuscì a capovolgerne le sorti a proprio favore.
Cinquant’anni fa, infatti, sorprendendo Israele impegnato in vicende politiche interne che riguardavano la tenuta della leadership di Golda Meir, l’attacco improvviso delle forze prevalentemente di Siria e Egitto fu condotto per riconquistare il Golan per la Siria e il Sinai per l’Egitto occupati da Israele dopo la Guerra dei sei giorni del giugno 1967. Anche in quella circostanza, a favorire l’avvio di un’operazione militare a sorpresa, vi fu un vantaggio militare in termini di sistemi d’arma garantito dal supporto dell’Unione Sovietica alla ricostruzione della capacità operativa dei due eserciti arabi. A cinquant’anni di distanza, le difficoltà di tenuta interna del governo di “Bibì” Benjamin Netanyahu e il conflitto russo-ucraino, che domina la scena politica internazionale dal febbraio 2022, rimettono al centro il Medio Oriente riproponendo quasi gli stessi presupposti del 1973 salvo qualche novità del nostro tempo. La prima, la difficoltà dell’Occidente di dare risposte definitive o quantomeno possibiliste purché condivise alle crisi aperte e solo temporaneamente silentemente sottotraccia per debito geopolitico di altre priorità per il mondo arabo e per le potenze di ieri. La seconda, la capacità di risposta del mondo non occidentale messa in campo approfittando della sottrazione per volontà euroccidentale dal dialogo continentale della Russia, respinta verso l’Oriente e utilizzando la questione ucraina come possibile chiavistello per riorganizzare relazioni di potenza continentali e non solo e assetti di potere secondo uno schema egemonico a stelle e strisce in pieno debito di ossigeno se non militare, certamente economico e di credibilità politica nel resto del mondo, mondo arabo compreso. La terza, la totale indifferenza non solo per le minoranze del Donbass europeo, ma per le condizioni dei palestinesi costretti a vivere in una improbabile finta nazione disegnata su due territori privi di contiguità geografica, di fatto campo profughi formalmente autonomo, ma decisamente ricondotto sotto la sovranità di Israele.
Ciò sembra più che sufficiente per svuotare di ogni significato teorie per le quali Hamas si muova come una sorta di strumento utile a dare a Tel Aviv le ragioni per una resa dei conti definitiva magari giustificando una sorta di nuova “soluzione finale”, in una storia priva di legittimazione giuridica vista la non osservanza della prima e più importante risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite che Israele disattende da più di settant’anni come la numero 181 che sanciva la spartizione della Palestina attribuendo – alle condizioni demografiche di allora - il 56,47 % del territorio a 500.000 ebrei + 325.000 arabi, il 43,53 % del territorio a 807.000 arabi + 10.000 ebrei, la tutela internazionale su Gerusalemme con circa 100.000 ebrei e 105.000 arabi.
L’Operazione Al Aqsa Storm, sa molto delle operazioni di Tel Aviv condotte nel territorio libanese, dove le necessità di difesa preventiva hanno di fatto superato ogni limite di legittimazione giuridica violando la sovranità del Libano più volte quanto quella della stessa Siria. Al Aqsa Storm non solo sembra la nemesi replicante di una nuova guerra del Kippur, ma restituisce con le stesse modalità, le stesse condizioni tattico-strategiche di cui Tsahal ha profuso insegnamenti negli anni, dove il limite dei rischi collaterali è così sottile da superare i massacri mai pagati da Ariel Sharon di Sabra e Shatila, compiuti con la complicità delle forze maronite e la compiacenza degli Stati Uniti in Libano tra il 16 e il 18 settembre 1982 che si sommava al già “settembre nero” giordano e alle mai finite vicissitudini di un popolo utile a mantenere in crisi una regione su cui si sovrappongono linee ed interessi strategici di vario genere. Ferite mai sanate se non rimarginate in parte per opera di un Rabin che aveva una visione chiara del futuro di Israele e che proprio per questa visione, che lo allontanava dai ricordi di uno sprezzante Begin, ne avrebbe pagato il prezzo con la morte come avvenne per lo stesso Sadat.
Vedere agire Hamas quasi mettendo in campo una sorta di reinterpretazione della «dottrina Dahiya», ha lo scopo più che evidente, a crisi russo-ucraina data, di impantanare l’Occidente nuovamente in una crisi e in un quadrante di certo non alla pari di quello ucraino per importanza strategica se non per sopravvivenza economica delle economie europee e non solo. Applicata in Libano nel 2006 dalle forze israeliane contro Hezbollah (Summer Rains Operation – Operazione Piogge Estive) come nella Striscia di Gaza nel 2006 (Autumn Clouds Operation – Operazione Nuvole d’Autunno) e nel 2008-2009 (Cast Lead Operation – Operazione Piombo Fuso) contro Hamas, per la «dottrina Dahiya» la proporzione del coinvolgimento anche di spazi civili diventa un dettaglio laddove una sproporzione è ritenuta necessaria e percorribile se adeguata e coerente con lo scopo. Un convincimento giustificato dal fatto che per il generale israeliano ideatore di tale condotta, Gadi Eizenkot, i quartieri e le città sarebbero riconosciuti come obiettivi e, per questo, da considerarsi basi militari e non semplici centri o aree civilmente urbanizzate.
Hamas risponde oggi con gli stessi termini e argomenti di ieri e fa di Al Aqsa Storm una sorta di lesson learned del terrore costante, proponendo a Israele le stesse modalità di condotta di operazioni diffuse e articolate su terreni fortemente urbanizzati e al massimo del danno collaterale ottenibile. Condurre una operazione contro Israele per Hamas, quindi, non è solo una scommessa. Essa risponde ad un disegno molto più ampio sfuggito di mano ad Israele e al suo ineffabile Mossad troppo presi a difendere la tenuta dell’esecutivo Netanyahu, a supportare gli Stati Uniti nella politica antirussa dimenticando quanto e come e in che misura la Russia di Putin, in fondo, in un passato non molto lontano, sia stata vicina a Tel Aviv nei rapporti economici e nella possibilità di ristabilire equilibri strategici condivisi proprio in quel Medio Oriente che oggi riscalda gli animi e riporta a galla i veri rischi di un conflitto allargato, ben più di quanto quello russo-ucraino può lasciar immaginare.
D’altra parte, senza cadere nell’inganno dei perché o dei dubbi sul come ciò sia potuto accadere, bisogna molte volte accettare che anche i grandi e i più capaci sbagliano. Per errori di valutazione, per supponenza o anche solo per superficialità magari perché distratti da altri obiettivi e interessi che sembrano più importanti o più alla portata di mano di quanto, alla fine, questi non siano. Ecco, allora, che nel ricordo dei cinquant’anni dalla guerra del Kippur, può accadere che anche i migliori del mondo possano sbagliare peccando di superficialità e allentando l'attenzione sulla sicurezza interna. Al Aqsa Storm può dare a Israele un motivo per regolare i conti con Gaza, ma non si creda che per fare ciò non sarebbe stato sufficiente un casus belli di minor dimensione, ma ad alto impatto, e magari non ricorrendo a un suicidio di parti della stessa nazione ebraica che paga il prezzo non dovuto di una visione eletta e elitaria che relega ai margini della dignità dell’esistenza umana un altro popolo. Non credo che, nonostante le difficoltà del governo di “Bibì” Netanyahu, la credibilità venga riconquistata accettando o provocando artatamente perdite e ostaggi israeliani nel numero odierno. Al contrario, la realtà è proprio la difficoltà del governo di “Bibì” che viene sfruttata riaccendendo lo scenario mediorientale per alleggerire la pressione mediatica e politico-strategica dell’Occidente sul fronte ucraino costringendo, proprio l’Occidente, a dover affrontare una nuova crisi a ridosso di casa. Un Occidente costretto a mettere in ordine di priorità i propri interessi, magari decidendo di abbandonare la stessa Ucraina alla propria sorte per incapacità economica e per impossibilità di poterne sostenere ancora nel tempo gli sforzi a nuove condizioni date dal riacutizzarsi del fronte del Mare di Mezzo.
Ma non basta, dire anche, e semplicisticamente che dietro l’attacco di Hamas ci sia l’Iran è una verità che paga il prezzo di un altro luogo comune se non si contestualizza il fatto che Teheran da sempre gioca le sue carte per affermare una propria leadership regionale per collocarsi a guida del fronte sciita, supportando Hezbollah e magari accettando, e si spera ciò non accada mai, anche una possibile alleanza tra movimenti sunniti e radicalisti sciiti aspettando l’occasione migliore per allargare a proprio vantaggio un arco di crisi già abbastanza ampio. La stessa Siria gioca le sue carte a Nord di Israele, quasi da mancata ipoteca sulla sicurezza di Tel Aviv perchè non piegata da un sanguinoso conflitto che ha visto proprio Mosca porsi a garante di Damasco, mettendo sul tavolo quella mancata soluzione della sovranità sulle alture del Golan sottrattegli da Israele dopo la Guerra dei sei giorni e mai più restituite dal momento che nel Golan vi sono le sorgenti del fiume Giordano. La rimessa sul tavolo delle questioni insolute e presenti nella memoria collettiva di generazioni di arabi-palestinesi ma rideterminate nel gioco dei nuovi rapporti di forza rappresenta, oggi, una trappola esplosiva di nuova generazione e di inaudita violenza, che supererebbe le esperienze vissute dall’Occidente negli anni del Novecento.
La verità, dietro le parvenze di condanne di maniera e tipiche delle miopi, disattente cancellerie europee è che vi è un mondo che replica a ciò che resta della politica egemonica occidentale utilizzando le crisi che l’Occidente ha provocato, usato e non risolto ieri come oggi. Dal Medio Oriente, all’Iraq, all’Africa, all’Afghanistan e ancora in Palestina. Il vero pericolo, comunque dovesse concludersi la crisi di Gaza, è che il “nuovo” Terzo mondo, non solo dei Brics ma di questi più i popoli e i movimenti non occidentali, possa coalizzarsi in una sorta di crociata al contrario, dove l’Occidente si trasforma nell’autocrate-Leviatano geopolitico e geoeconomico da abbattere. Questo rischio non è certo lontano e l’aver messo all’angolo la Russia priva l’Europa di un argine e di un interlocutore con il mondo dell’altrove e delle Terre di Mezzo non certo uscito fuori dalla storia.
L’Europa, nella sua pavida controfigura di un attore svuotato da ogni ideale e da ogni capacità di mediazione, vittima di se stessa e di quel doppio standard per il quale vi sono dittatori compiacenti utili ed amici e dittatori nemici, incapace di assumersi le proprie responsabilità geopolitiche, rischia di essere la nuova periferia del mondo. Una condizione molto chiara non solo a Russia e Cina ma anche agli Stati Uniti. Questi ultimi, pronti ad abbandonarla quando l’idea di impero universale vedrà ridursi alla necessità di difendere se stessi, e consolidare, se non essere guida del mondo libero, l’essere almeno protagonisti di un nuovo ordine che non vedrà Europa, o questa Europa, al centro dei destini dell’umanità.