Ci si rende conto molto presto che la Pasqua non è certo un momento qualsiasi per una cristianità spesso distante da se stessa, Non lo è neanche per chi la Pasqua la vive come una sorta di celebrazione altrui in una dimensione quasi da ricorrenza senza contenuti. Forse perché segna troppo un messaggio universale che mette in discussione paradigmi biblici che non dovrebbero andare oltre il Vecchio Testamento. O perché, probabilmente, essa segna un destino comune che non si fa scrupolo di differenze o di rivelazioni a senso unico o diritti di esclusività che sembrano attribuire un destino ad alcuni e rendere marginali dal Dio del mondo la vita e le opere di chi non è tra gli eletti.
Eppure nel solco della storia e dei suoi drammi tutto sembra essere stato concesso come, d’altro canto, tutto è stato pagato. Insomma, senza riscrivere una storia già letta di una crisi profonda come quella in atto in Medio Oriente c’è da chiedersi, oggi se per caso Israele, cui ogni nazione civile, per debito o per senso di giusta colpa, ha concesso e riconosciuto l’esistenza possa oggi continuare a negare esistenze altrui. Non si tratta di rivedere quanto e in che termini le buone intenzioni, mancate, e la fiducia, mai riposta e, se fosse, mal riposta, da entrambe le parti abbia mai dato speranze per chiudere una partita che in molti non vogliono chiudere, israeliani compresi.
Nella mancata soluzione della questione palestinese, nella mancata restituzione di territori siriani ancora oggi occupati se non annessi come le alture del Golan, o la partita rivolta a guidare una regione profilandosi un proprio dominio economico cui far convergere gli Stati arabi a maggior opportunità come tentato con gli accordi di Abramo di fatto ha continuato a far dimenticare che la pace corre sulla via della dignità e delle opportunità. La miopia di Tel Aviv nel rendere marginale il problema palestinese, nel cercare di ridurne il peso da sempre utilizzando l’arma demografica tra insediamenti di coloni nei territori palestinesi al netto di ogni risoluzione di condanna della Nazioni Unite (69 risoluzioni solo del Consiglio di Sicurezza senza contare quelle della Assemblea Generale più le 29 “non” passate per diritto di veto posto dagli Stati Uniti dal 1948 a oggi) quanto il dare corso a rappresaglie sanguinose ha di fatto accreditato Hamas rendendolo più pericoloso della stessa OLP di Arafat, per il cui contenimento Tel Aviv ne ha tollerato l’ascesa del movimento sunnita palestinese.
L’attacco di questi giorni alla Siria dopo il sud del Libano da parte di Israele si pone quale un buon avvio verso una strada senza ritorno per Israele. Una strada che credo sia un buon inizio per allargare il conflitto. Una replica di quanto avvenuto negli anni Novanta del Novecento ma ancor prima, dove ogni diritto di sovranità viene meno di fronte alla pretesa punitiva di Tel Aviv e ogni regola del diritto internazionale subisce una compressione o una disapplicazione per mano dello Stato di David. Se Israele si trova a dover pagare il prezzo del nuovo Kippur iniziato esattamente cinquant’anni dopo il 1973 non è certo un caso. Se la scelta degli Accordi di Abramo era quella di rilanciare l’esistenza di Israele, incastonato in una regione araba come una sorta di partner economico fondamentale, di certo questo poteva essere un buon viatico per giungere ad una sorta di modello cooperativo ma a una condizione: non escludere i palestinesi.
Il non aver ancora oggi "capito" il 7 ottobre 2023 resta una sorta di superficialità poco comprensibile per leadership molto attente come quelle che hanno sostenuto il governo Netanyahu e, se così non fosse, pericolosamente velleitarie credere di poter reiterare politiche di esclusione cercando di screditare una capacità di governo palestinese e giustificare il ruolo di dominus da parte di Tel Aviv sulla ANP. Come ben ricordava Ian Arthur Bremmer esattamente due giorni dopo l’attacco di Hamas, al netto di ogni condanna, giustificazione e rappresaglia possibile, la sconfitta di Israele correva già ogni giorno sulla povertà dei palestinesi. Forse la partita per Israele finirà con la distruzione dei palestinesi, o con l’annichilimento di ogni loro dignità politica di popolo. Ma se la storia è la fonte di legittimità degli uni lo è anche per gli altri. Ciò significa che la distruzione dei palestinesi segnerà anche la fine di Israele.
Insistere in un diritto proprio per interpretazione divina di un destino non condiviso con altri popoli ha condannato e condannerà Tel Aviv a una guerra permanente che assorbirà ogni energia, ogni risorsa materiale e non solo. L’avversario, se questo era rappresentato dal radicalismo palestinese oggi interpretato da Hamas - poiché orfani di una visione laica che fa rimpiangere Arafat - andava sconfitto combattendo la povertà, la strumentalità delle lusinghe di un fondamentalismo di cui Teheran si è servito per giustificare la propria esistenza come modello teocratico di potere ponendosi dalla parte degli esclusi. Israele ha piegato negli anni diritti di sovranità ovunque nel mondo agendo senza riguardo dei confini altrui, ritenendo che il farsi giustizia da se fosse concesso per diritto acquisito e non che, al contrario, ciò fosse proprio fuori da quel diritto cui chiede poi di far riconoscere e difendere la propria esistenza. Probabilmente noi europei siamo troppo distratti da un conflitto europeo come lo fummo nelle possibilità di una guerra limitata nell’estate del 1914. Ma così non fu e non sarà.
La crisi russo-ucraina corre anche in Medio Oriente seguendo un filo conduttore dove diritto e politica si sovrappongono e dove, peraltro, l’idea di un nuovo concerto delle potenze auspicato da Kissinger sembra proprio stentare a realizzarsi probabilmente per una triste convergenza storica di leader politici non all’altezza dei tempi, soprattutto in Occidente. L’idea di un conflitto allargato non è certo una ipotesi da spiaggia. Essa rimane il rischio più evidente che si corre in Europa come in Medio Oriente. Convinti, nel primo caso di giocare una partita definitiva contro il resistere di una prospettiva orientale su quella neoliberale a egemonia occidentale nei rapporti di forze ed economici e, nel secondo, che sia possibile per Tel Aviv combattere nuove guerre bibliche sperando che nuove teste cadano per mano della spada di Giosuè e far trionfare ciò che nella stessa Bibbia non fu: l’idea di una esclusività che non è certo universalità.
Ma la Bibbia non è certo un libro facile neanche per chi vi si ispira e, spesso, lo stesso Testo Sacro, letto e interpretato a uso e consumo delle ideologie del momento, condanna gli atti che vanno al di là della volontà di un Dio o del diritto di un popolo. Forse l’universalità di Gesù, e il suo progressismo negato, che vorrebbe riscrivere la stessa Bibbia come un libro di un Dio buono e non di un Dio di guerra, avrebbe dovuto consigliare meglio in tutti questi anni anche le scelte geopolitiche in una terra che della sua vocazione religiosa ne fa un carattere e una condizione di sopravvivenza, se non una pessima e pericolosa scusa ai danni dei più deboli.