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Alexander Dubcek

Agli Stati Uniti non importa nulla della Nato (e dell’Europa)

Agli Stati Uniti non importa nulla della Nato
È difficile non guardare ad un conflitto che entra nelle nostre case e che lo percepiamo per la prima volta, nonostante ne abbiamo avuti altri nelle prossimità delle nostre porte, molto vicino; quasi così vicino da infondere preoccupazione per la nostra stessa sicurezza che non è solo data dalla sopravvivenza fisica, ma anche da quella economica. A distanza di quasi tre mesi dall’avvio delle operazioni russe in Ucraina - e con uno scenario che dimostra ancora una volta, spiace dirlo per i cultori della modernità tecnologica a danni limitati, come la guerra rimanga quel camaleontico evento che si manifesta nell’essere il regno della complessità e dell’incertezza -  crediamo ancora che la possibile soluzione dovrà essere scritta nell’interesse europeo, ma non sarà così salvo ravvedimenti, si spera, non da ultima ora.
 
Ancora oggi, non si vedono, infatti, progressi nei negoziati o in contatti dotati di una sincerità necessaria, o passi indietro magari suggeriti da un buon senso strategico, e dalla storia, che sembra non albergare in Europa. Insomma, nel giorno dell’incontro di Torino dei ministri degli esteri degli Stati membri del Consiglio d’Europa, in una città che vede al massimo livello rappresentate le diplomazie d’Europa ci si chiede cosa mai dovrebbero dirsi coloro, tra questi, che senza battere ciglio non solo hanno permesso che si giungesse a tale abominio umanitario, di cui Putin ne è responsabile in linea di diritto e di etica se si vuole - ammesso che tale parola abbia un senso anche per gli Stati Uniti che su tale eventualità contavano almeno dal 2014 - ma che han fatto di tutto per alzare il prezzo dello scontro in nome di valori democratici violati sistematicamente anche dall’Occidente e dai suoi paladini.
 
Al netto degli interessi politico-strategici ed economici di lobby ben definite in Ucraina, è sin troppo chiaro (i latini direbbero in claris non fit interpretatio) che per gli Stati Uniti in Europa si tratta di massimizzare e capitalizzare una strategia questa volta di retroguardia (rearguard strategy) messa in campo dall’amministrazione Biden per ottenere due risultati decisivi senza impegnarsi direttamente sul campo evitando un nuovo Vietnam o anche solo di replicare il disastro dell’Afghanistan. Il primo, ridurre sempre di più, attraverso il dilatarsi del conflitto, la competitività economica dell’Unione europea ed evitare che la Cina si impadronisca del mercato occidentale creando uno spazio competitivo insieme alla Russia. Il secondo, militare, evitare un asse tra Mosca e Pechino tale da rendere marginale la posizione americana quale potenza leader mondiale; ovvero, tenutaria di ultima istanza dei destini dell’umanità. Il tutto, giocando sulla pelle dei soliti terzi: gli europei. D’altronde, per Washington, al di là delle retoriche di circostanza, la Nato non è una Santa Alleanza e di Metternich, o di Kissinger per quanto cinico nel suo pensiero, del nuovo tempo non se ne trovano neanche ad ordinarli su misura online; ci accontentiamo, in Europa, salvo rare eccezioni, di reclutarli in periferie culturali che dominano ormai gli inconcludenti parlamenti del continente.
 
Tuttavia, senza cadere in un qualunquismo utile per non prendere posizione e fare dell’ignavia una virtù, probabilmente, dopo aver ascoltato le immancabili dichiarazioni di un segretario generale della Nato che dovrebbe occuparsi del funzionamento della stessa e non invadere campi di sovranità che non gli sono delegati per trattato - parlando in nome di popoli che con seria difficoltà non si riconoscono neanche nelle scelte dei loro governi - dovremmo credere che qualcuno stia giocando al cosiddetto “tutto per tutto”. Non si comprende, infatti, dove possano essere viste e considerate delle minacce alla sicurezza della Finlandia o della Svezia da parte russa, a meno che Putin non sia da considerarsi ormai privo di una capacità di valutare che un allargamento del conflitto, ammesso che vi siano delle ragioni e non ve ne sono almeno sino ad oggi, non farebbe altro che aprire più fronti, dilatando e moltiplicando linee di alimentazione degli sforzi che la storia ha già condannato, nei risultati, come un suicidio strategico.
 
La verità, che nessuno vuol vedere, e che la geografia ci impone al di là della nostra preparazione funzionale a soddisfare l’aspetto ludico-turistico, è che sembra che gli Stati Uniti, ormai player di una guerra condotta per procura, ovvero sulla pelle ucraina e usando le servitù europee, giochino la loro carta definitiva nel regolare i conti con la Russia piuttosto che con Putin. Ovvero, escludere una volta per tutte, ridimensionandolo se possibile, un concorrente politico-strategico che si pone quale ostacolo ad una storia da riscrivere in salsa americana, messianico-salvifica che vede l’Impero del Bene allargare le sue profferte su nuove frontiere dopo aver disseminato di macerie il Nord Africa, il Medio Oriente, i Paesi del Golfo e l’Asia Centrale, senza dimenticare i cortili di casa dell’America latina. Uno sforzo necessario per chiudere non solo il cerchio con l’Europa, privata della sua competitività e centralità ormai sempre più residuale, ma con la stessa Cina ponendosi, gli Stati Uniti, in una utile zona di attesa prima di regolare anche con Pechino gli assetti futuri del mondo.
 
Insomma, è evidente che un allargamento a Finlandia e Svezia della Nato e, se fosse, anche all’Ucraina, determinerebbe l’uscita di fatto dall’Europa quale idea fisico-politica e culturale continentale della Russia che si vedrebbe interdetta, se non nei termini e alle condizioni del dominus atlantico, ogni possibilità di affacciarsi sul Baltico e, nel caso dell’Ucraina atlantica se fosse, di poter esercitare un pieno diritto di navigazione nel Mar Nero trovandosi di fatto esclusa dal Mediterraneo. In questo gioco al rilancio senza dare spazio a negoziati che abbiano un senso per l’Europa, sembra sin troppo evidente, e pericoloso, come non vi siano al momento freni inibitori in una politica estera giocata dagli Stati Uniti in maniera ossessivo-compulsiva e degna del parossismo degli anni Cinquanta del Novecento ma, oggi, ancor più pericolosa perché priva di garantite contromisure.
 
Una considerazione, quest’ultima, non banale dal momento che ciò sarebbe coerente, pur nella sua manifestazione patologica, con i principi e la cultura politica degli Stati Uniti portata ancora più avanti da quel pensiero neocon che affascina i democrat e che ha visto anche l’Old Party sostenerne la causa, costruita nel tempo sia sul mito dell’eccezionalismo che del destino manifesto. Cioè, condotta in nome dell’unicità di una Repubblica universale, nella necessità di adempiere ad una propria missione nel mondo affidata dalla Provvidenza agli Stati Uniti, e per il cui perseguimento ogni altra esperienza storica può essere sacrificata alle ragioni dell’imperatore: l’Europa; o, se altra diventa un ostacolo, un nemico da conquistare per ricondurlo all’interno del nuovo ordine e, se ciò non fosse possibile, ultima ratio regum, da abbattere: la Russia.
 
E’ evidente allora, che nel “fuck Eu” della signora Victoria Nuland, si manifesta quasi freudianamente un lapsus disarmante e dichiaratore, dove le intenzioni si manifestano con lucida volontà: usare la Nato quale ultima spiaggia e strumento di provocazione per provarci una volta per tutte a mettere le mani sulla Russia, su ciò che essa rappresenta in termini di mercato e di risorse. Una partita definitiva da condurre anche a costo di vedere l’Europa e la Nato piegarsi su ferite e drammi umanitari se non evaporare, nel caso di un overkill nucleare continentale, trasformandosi in un deserto fisico ed economico, condannando l’Occidente europeo a diventare un ricordo, ad uscire fuori dalla storia riscritta questa volta, se così sarà, da oltre Atlantico.

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