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Probabilmente, come ormai sembra quasi consolidato nella curiosità occidentale di dare un motivo o una spiegazione logica alle trovate d’immagine che contaminano anche altri emuli dell’anglosfera, l’idea che l’ispirazione wagneriana ad una versione post-eroica della guerra domina le prodezze del mercenariato russo.
Una sorta di versione di secondo piano di ciò che resta dell’expertise dell’Armata Rossa del passato, almeno come memoria, e di ciò che è oggi la nuova frontiera della stessa guerra: la sua privatizzazione. Una versione di comodo, quella della privatizzazione della guerra, utile per governi che intendono non solo agire indirettamente e senza bandiera - una sorta di nuova guerra di corsa nelle diverse dimensioni del conflitto con patente di agire per conto e nell’interesse di colui che meglio paga, in termini politici e di conto corrente – ma che possono aggirare limiti e vincoli posti dal diritto internazionale lasciando rischi e responsabilità dei cosiddetti danni collaterali a coloro che agiscono al di fuori delle convenzioni. Non è certo una novità nel panorama della storia mondiale del Novecento come non lo fu nel passato. Non è necessario, infatti, scomodare le compagnie di ventura o cercare di trovare oggi un modello di Capitano di ventura quale fu un Giovanni de' Medici dalle Bande Nere o un Bartolomeo Colleoni per cercare in un avventuriero alla Prigozhin spiegazioni di come e perché un cuoco si ritrova a capo di un esercito privato, quasi a negare ormai quel dato di sovranità che rappresentò una delle conquiste e ragioni dello Stato moderno: il monopolio dell’uso della forza e la creazione degli eserciti nazionali. Un dato di sovranità quasi paradigmatico se non ragione di esistenza dello stesso Stato come categoria politica quale unico utilizzatore della forza, oggi messo da parte con le Private Military Company (PMC) ogni volta che il politicamente corretto, o il tatticamente opportuno, richiede di usare specchi di altro tipo per raggiungere risultati che una prima linea con bandiera non avrebbe potuto ottenere allo stesso modo: ovvero con gli stessi metodi.
Che si tratti di Prigozhin o meno e delle sue valchirie - senza ricordare il mercato del mercenariato di cui nazioni come Francia, il Portogallo delle migliori ore negli anni Settanta e Ottanta, e lo stesso Regno Unito ne favorivano il ricorso (come dimenticare gli annunci pubblicati su «SOF - Soldiers of Fortune» nei migliori anni Settanta/Ottanta del secolo scorso?) - di certo non si può dire che solo la Russia ne abbia fatto ricorso. Un elenco di Private Military Company porrebbe al vertice della classifica dell’offerta proprio gli Stati Uniti ormai da tempo. Superato il Vietnam e l’ingerenza dell’opinione pubblica sul vedere il soldato di papà a stelle e strisce perdere la vita o macchiarsi di operazioni non ortodosse, il ricorso alle PMC è ormai una realtà con la quale fare i conti. Conti, non solo militari ma, anche, politici, dal momento che il loro uso e i costi, se non le richieste in corso d’opera, possono mutare e capovolgere non solo gli esiti sul campo di battaglia ma anche gli assetti di governo. In questo gli Stati Uniti hanno risolto tale rischio agganciando i destini stessi di tali compagnie alle ragioni della leadership del momento visto che le stesse compagnie si dimostrano anche ottimi finanziatori delle campagne presidenziali. Ad esempio, pur nella brevità delle memorie dell’Europa democratica, non si può non ricordare la Halliburton con un allora Dick Cheney Ceo e, contestualmente, anche vicepresidente degli Stati Uniti dal 2001 al 2009 al di là di ogni scrupolo su eventuali conflitti di interesse. Una società o, meglio, una Company di military supply chain che in Iraq e in Afghanistan fornì di tutto. Dal supporto logistico alle truppe all’impiego di contractors un termine, quest’ultimo, entrato nell’uso comune per edulcorare quello meno delicato di mercenari. Halliburton ha dato il meglio di se aggiudicandosi anche una parodia cinematografica delle sue prodezze proposta in termini di commedia con quel War Inc. interpretata da un disarmante John Cusack. In questo gioco indiretto, del voglio e non voglio, l’Occidente ha guardato al terrorista di ieri come al possibile eroe dell’ultima ora. Al Prizoghin utile strumento nel poter pensare di creare quel fronte interno in Russia utile a mitigare la disastrosa controffensiva ucraina e mettere almeno al centro della partita le sorti di un conflitto ormai, evidentemente, e pericolosamente sfuggito di mano sia alla Nato che alla stessa Russia.
Non ci sono dubbi - al netto delle variopinte analisi che si susseguono tra “Caoslandie” varie e compiacenti sorrisi distribuiti credendo che la leadership di Putin sia in crisi, finalmente - che soprattutto l’Occidente europeo, quello a parole più democratico e promotore della pace dovrebbe fare urgentemente pace con il cervello: e sarebbe proprio il caso. Nella disordinata cavalcata delle valchirie russe, che emula l’idea di un gambero nel suo andare con ritorno, e nelle speranze di giocare schizofreneticamente al rialzo da parte ucraina, molti analisti pronti a celebrare la sconfitta degli uni o la vittoria degli altri, gli Stati Uniti e, al loro seguito sommessamente, gli euroconvinti della guerra per la pace, si convincono che una Russia senza Putin può essere pericolosa. Magari immaginando un Prizoghin di turno che giochi nelle stanze del Cremlino con i bottoni cambiando cavalieri: quelli dell’apocalisse. Una carta tentata, quella della Wagner alla vodka, nello stile yankee di trovare un prezzo cui definire un accordo possibile che però, come a volte accade, non si dimostra così pronta a giocare sullo stesso tavolo se non dopo aver provato a rilanciare con il padrone di ieri. Insomma, in questa commedia tragica dove il doppiogiochismo sembra non solo evidente, ma quasi una regola di condotta sino al massimo del guadagno possibile per le parti, sembra affidarsi il destino del mondo. La "carta" Prigozhin, alla fine, quale tentativo per cambiare la leadership del Cremlino non è sembrata affidabile né per gli Stati Uniti ma, tantomeno, funzionale, se fosse, a dare sponda a Putin nel decidere il cambio ai vertici delle Forze Armate russe sacrificando uno Shoigu tutt’altro che leone da guerra e un Gerasimov forse troppo innamorato delle asimmetrie, ma poco avvezzo a gestire operazioni sul campo e su larga scala. Alla fine, delle due l'una. Si potrebbe dire che o gli Usa ci hanno provato, e ci hanno provato giocando con i loro metodi a fissare il prezzo di un golpe interno ma il cavallo non si è dimostrato particolarmente affidabile, modalità non nuova dell'agire di Washington; oppure sono degli irresponsabili compulsivi visto il ritorno sui propri passi lasciando che tra Putin e il suo ex cuoco il menu venisse riscritto magari a tavola con Lukashenko. E, questo, considerato che, alla fine dei conti, per Washington resta aperto il rischio ultimo rappresentato da chi, al posto di Putin e in un eccesso di caos potrebbe impossessarsi dell’arsenale nucleare russo.
Insomma, il percorso negoziale era e rimane l'unica via possibile, ma sembra che le diplomazie siano così drogate da non guardare oltre, di non accorgersi di un pericolo dietro l’angolo con il quale non si vince. Un pericolo percepito oltre i confini del Vecchio e debole continente, in un’Africa ulteriore che mette in campo un protagonismo senza precedenti. Oggi si guarda alle sorti di Prigozhin un mercenario in cerca del padrone migliore mentre ancora in Europa si combatte o gli si riconosce anche credibilità assumendo a verità happening online ritenendo che «Prigozhin ha squarciato un velo di omertà e disinformazione». Una considerazione maturata nell’immediatezza istintiva di una vittoria possibile, rimessa nelle mani di un mercenario ritenuto credibile oggi, ma non certamente ieri. Ma, alla fine dei conti, tra valchirie cavalcanti a ritroso e capi in fuga verso il lido bielorusso proposto dallo stesso Putin, al netto delle impunità promesse, il nuovo scacco all’Occidente sembra essere posto in essere. In tutto questo - e sempre al netto di altri imbarazzi presentati da Ministri degli esteri dell’Occidente atlantico che dichiarano senza timidezza la loro poca comprensione di quanto accade salvo rinnovare la fedeltà a scelte sempre più discutibili e pericolose ogni giorno di guerra in più - ciò che emerge è che gli Stati Uniti sono pericolosamente degli elefanti. Cascano sempre nell'errore di credersi unici unti dalla Provvidenza. Di pensare che gli altri debbano per forza essere come loro o altrimenti verranno bollati come avversari. E, tutto questo, senza fermarsi a riflettere che il dichiarato sostegno della Cina, dopo le prodezze della Wagner che opera in aree d’interesse per Pechino soprattutto in Africa, probabilmente sottende il Dragone, in un modo o nell’altro, sia già presente nella war room russa dal momento che la Cina, e il suo presidente, ha ben chiaro come e in che misura gli unici obiettivi da perseguire e garantire, evitando l’escalation nucleare, sia il ristabilire un ordine politico ed economico per via diplomatica relegando ai margini il ricorso allo strumento militare. Ovvero, ciò che la democratica Europa non fa. Per Xi Jinping la vera sfida, nell’approfittare della soluzione della crisi russo-ucraina, è quella di porre la Cina al centro della geopolitica dei prossimi anni spostando la guerra/competizione su piani che un buon Le Carré, come ricordava un mio caro amico, definirebbe "sublimali".
Certo, per gli amanti del gioco di intelligence la vicenda Wagner & Co, potrebbe anche rientrare all’interno di operazioni di controinformazione o trattarsi di una tattica mediatica per preparare due eventi. Il primo, una possibile, quindi non esclusa, entrata in guerra della Bielorussia; il che allargherebbe la linea del fronte e aumenterebbe in profondità a favore russo gli spazi utili per gestire eventuali proiezioni avanzate della Nato. Il secondo, un uso intensivo del potere aereo da parte russa non usato sino ad ora, aumentando il retroterra strategico su cui poter contare in caso di un allungamento dello sforzo ucraino prima e della Nato dopo e garantire le sortite dei bombardieri. Vi sarebbe anche un terzo. E, cioè, come extrema ratio (ultima ratio regum) di poter ricorrere alle bombe nucleari tattiche su più fronti, ecco le ragioni delle forniture alla Bielorussia, impedendo all’avversario di poter contare su reiterabili e risolutive capacità di strike. Ma se questo è il palcoscenico sul quale si recita il gioco di potenza e di potere a favore di una platea di ignavi spettatori, ciò che dovrebbe preoccuparci è, senza guardare alle vicende delle gerarchie russe, è la inadeguatezza delle gerarchie Nato e delle leadership politiche che si sommano, poiché funzionali ad esso, al compulsivismo neo-neocon americano. Per questo, tutto oggi può essere. D’altra parte, è un dato di fatto che gli Stati Uniti e la Nato sono confusionari, pericolosamente confusionari nel decidere come e in che misura chiudere una partita sul piano negoziale non essendo, comunque, in grado di poter affrontare una sfida sul campo a partiti, e forze, aperte. D’altra parte, non credo che non sia chiaro che se dovessero prevalere linee ancor meno accomodanti di Putin, se fosse, sarebbe un grosso guaio. Le “paure” degli Stati Uniti sulle sorti di un dopo Putin, non avendo probabilmente dei possibili leaders pronto consumo nel cassetto delle opzioni, dimostrano oggi come e in che misura il grottesco ex cuoco della Wagner sia solo un improvvisato, seppur pericoloso, doppiogiochista che abilmente ha ben usato i suoi argomenti a fronte di una, a questo punto evidente, scarsa credibilità dello Stato maggiore russo. Ma al di là del fatto che gli Stati Uniti possano essere corsi ai ripari di fronte agli insuccessi ucraini cercando di “spolettare” la stabilità di Putin dall’interno, il fatto che il capo delle valchirie abbia fatto marcia indietro la dice lunga sulle capacità di Putin di riuscire ancora a controllare la tenuta della sua autorità. Ecco allora che, nuovamente, la storia insegna. A volte certe figure per quanto grottesche come Prigozhin sommano su di loro le contraddizioni e debolezze di chi a loro poi si affida. E, forse dovremmo sperare che chi regge le sorti del nostro domani rilegga se stesso attraverso quel How Enemies Become Friends di un Charles Kupchan probabilmente non attentamente riconsiderato in Occidente più di quanto Sergej Karaganov su «Ria Novosti» del 25 giugno ultimo scorso, russo e già membro della Trilaterale e non certo un falco putiniano, mette in guardia su come e in che termini la sopravvivenza della Russia sia necessaria alla sopravvivenza stessa dell’Europa, pena quel fine ultimo per il quale se Russia non sia, l’Europa non sarà.