"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

Dopo Vilnius. Una o più … o nessuna Nato

 Il futuro di un’Alleanza tra egemonia neoimperiale e nazionalismi di ritorno.

Dopo Vilnius

 vision global trends logo 3

A distanza di poco più di due settimane dal termine del vertice atlantico di Vilnius si possono azzardare alcune valutazioni tra quanto detto, scritto, pensato e dichiarato. Tra l’essere il summit delle aspettative di tutti o l’ennesimo incontro nel quale tutti si promettono tutto e poi in pochi manterranno ciò che sarà possibile mantenere. O, se si vuole, Vilnius potrebbe rappresentare o rappresenta senza ombra di dubbio una ragione in più per comprendere una Alleanza Atlantica che di atlantico, man mano che sposta la sua asticella verso Est, sembra avere ben poco.

E non si tratta solo di Ucraina o di Russia o delle reiterate formule assicurative che trasformano la Nato in una sorta di polizza assicurativa con franchigia per gli Stati membri dell’Europa orientale, che affidano se stessi al riguardo del più forte, quasi evocando la promessa di protezione eterna di fronte a una sorta di nuova guerra del Peloponneso a latitudini prossime a quelle già care a Tucidide. Latitudini, queste, dove la ragione del più forte dovrà necessariamente prevalere e che per un solitario – almeno così come ce lo hanno consegnato le foto - Volodimyr Zelensky, seppur promosso a presidente di guerra, ciò potrà accadere solo all’interno di una Nato più forte militarmente, politicamente assertiva solo se comprenderà Kiev. Un fantasma, Tucidide, che alberga nei sogni di potenza, ricordato non a caso nella versione trasfigurata da un attento Graham Allison (ricordate il Destined for War) e della geopolitica d’effetto tipica della tradizione d’oltreoceano e che si risolve in quella “trappola” (Thucydides' Trap) che segna il possibile, ma da scongiurare, scontro tra Cina e Stati Uniti. Entrambe, quasi improbabili omologhi delle immortali Città-Stato per antonomasia, le cui vicende dovrebbero ricordare che la logica del più forte se segna le ragioni delle parti ne segna anche i loro destini non sempre di gloria.

Certo, in un realismo neo-hobbesiano, non si può chiedere di assumere ad esperienza le vicende dell’umanità e dei suoi ordini mancati e mai trovati se non nelle ragioni della politica di potenza del momento. Tuttavia, non si può certo non riconoscere che gli Stati Uniti ritengono oggi di essere la nuova Atene, considerandosi da sempre la nuova Gerusalemme, se non rappresentare un epifenomeno geopolitico quale epilogo ultimo della storia dell’umanità. In questa raffigurazione quasi epica di una volontà di egemonia democratica nell’unica versione possibile, quella a stelle e strisce ovviamente, il vertice Nato di Vilnius ha voluto mettere al centro due prospettive. Quella neo-atlantica vista da Washington, a uso e consumo della potenza americana, che ha bisogno di ri-assicurarsi la fedeltà dell’Occidente europeo e quella neo-neoatlantica. O, se si vuole, quella post-atlantica nella quale tra gli incubi storici mai superati dai Paesi baltici e la strumentalità del nazionalismo polacco alla scoperta della sua occasione del secolo per definirsi finalmente protagonista, si vorrebbero riscrivere i confini della Nato a discapito ovviamente di una Russia giunta, a quanto pare, al capolinea della sua esperienza storia e prossima all’implosione. Ma tra i confini della Nato si vorrebbero ridisegnare anche quelli della stessa Alleanza rispetto al nucleo centrale che sino a ieri sembrava fosse quasi decisivo nel porre come argomento un nuovo modello di sicurezza continentale, magari concretamente europea: quello che va verso Ovest.

Vilnius, tuttavia, non è stato solo un vertice nel quale i “nuovi” volenterosi sembravano essersi dati un appuntamento tra vecchi amici. Si è trattato anche di difendere una nuova riconfigurazione di un passato riproposto con lo stesso schema di ieri dove se la Russia vi rientrava riprendendo il posto dell’impero del male, quello sovietico, l’Europa è tornata a svolgere quel ruolo di appendice dell’egemonismo statunitense cui si devono sacrificare economie e ambizioni. Il vertice nel quale si è ancora una volta sacrificata un’idea di europeismo protagonista che non sarebbe certo funzionale nel difendere la supremazia americana e che, se fosse e solo per questo, svuoterebbe di significato la stessa Nato. Infatti, nella riproposta visione di una possibile Global-Nato, già prefigurata a Madrid nel giugno dello scorso anno, si nasconde la strategia di Washington rivolta a voler riconquistare quel terreno perso soprattutto in termini di credibilità politico-strategica in Asia centrale nel disastro afghano, ormai condannato all’oblio disinteressato di quell’Occidente difensore a orologeria dei diritti umani. O nel recuperare quella credibilità economica che rischia di dissolversi nel crollo di fiducia verso il dollaro quale moneta di riserva e di divisa utilizzata negli scambi commerciali non solo per le avventure speculative, ma per il rischio di vedere alle porte nuove crisi di liquidità e di solvibilità possibile per i detentori di biglietti verdi e di titoli di debito ad essi nominalmente riconducibili. In questo scenario complesso, il vertice di Vilnius doveva necessariamente apparire agli occhi di quel mondo di quei G-meno qualcosa, ma che contano, il summit della condivisione, della compattezza. La risposta ferma di un Occidente unito e coeso, capace di dare un segnale di incrollabilità e di monolitismo strategico alla Cina, ai Brics, oltre che alla Russia della quale si è certi di una possibile sconfitta se non se ne augura la fine come esperienza storica e la sua frammentazione in nuove nazionalità che nell’idea riformulata del divide et impera solo le cancellerie europee sembrano non trovare un senso o un legame, se non un ricordo, con le profezie che portarono alla Grande Guerra.

Insomma, nel celebrare nazioni e nazionalismi alla stessa stregua di quanto in fondo non abbia fatto anche un Putin uomo del Male, senza rimuovere politiche e attitudini discriminatorie in termini di tutela delle minoranze così care ai baltici e polacchi coerenti come sono ai “criteri” di Copenaghen, va da sé che il gioco si è svolto sul tavolo di Biden e soci. O, forse, soprattutto dei soci neo-neoconservatori che attendono quella vittoria ucraina e quella caduta dell’aquila post-zarista quale coronamento dell’americanizzazione dell’Europa e, con questa, la fine dell’idea di un’Unione europea quale unità di intenti e di popoli. Un’idea di identità ritenuta così pericolosa al punto da far sì che un’attenta Magdalein Albright se ne guardasse bene dall’avallare il consolidarsi di una European Security and Defense Identity negli anni Ottanta e Novanta del Novecento. In fondo, era più che evidente che per gli Stati Uniti, che mal digerirono lo spostamento in avanti della capacità economica dell’Ue, la nuova priorità sarebbe stata quella di ostacolare una possibile duplicazione delle capacità militari tra ordine atlantico e pretesa di un ordine europeo. Questo, vincolando gli europei atlantici alle necessità Nato, permettendo alle diverse interlocuzioni su una possibile difesa europea di poter esprimere solo parti di secondo ordine o marginali a quelle esercitate dalla Nato con buona pace di tutte le formule e i compromessi possibili.

In questa prospettiva, ogni dichiarazione, ogni gioco delle parti consumato tra ragioni dell’uno o dell’altro restituisce a ogni attore il dubbio ragionevole del vero, quindi anche alla Russia di Putin per la quale la stessa Maria Zakharova, riportando un passo di «Ria Novosti» dichiara che a Vilnius Si ha l’impressione che al vertice della Nato sia stata presa e persino dichiarata una decisione: scatenare una grande guerra europea. Una dichiarazione di certo non nuova. Ma di nuovo ci potrebbe essere quell’obiettivo nascosto dalle nebbie della guerra per il quale più che di una guerra europea sembra essere una guerra all’Europa condotta proprio da chi intenderebbe sollevarla dal suo destino mentre la condanna a essere un perenne campo di battaglia per gli anni a venire. D’altra parte, al netto di ogni riflessione e considerazione letta o ascoltata nelle varie sedi e occasioni, con buona franchezza le domande che ancora oggi dovremmo porci restano le stesse e rimangono pietrificate, a situazione congelata nelle relazioni tra Mosca e il resto dell’Europa, in quella visione concreta, puntuale, lucida e sincera che un esperto come Paolo Calzini, già docente della John Hopkins University oltre che in altre università italiane, aveva ben delineato nel 2014 (https://www.unacitta.it/it/intervista/2407-la-faglia-geopolitica).

Pur accodandosi ad una metafora tipica del sensazionalismo anglofono ritenendo che la crisi tra Russia, Ucraina e interessi del mondo più atlantico e meno europeo per la quale la crisi russo-ucraina disegni una sorta di “faglia geopolitica”, di certo vi è che sia la responsabilità della Russia che dell’Occidente euroatlantico di aver fatto sì che gli eventi precipitassero proprio in Ucraina - credendo che quanto sarebbe poi accaduto potesse rispondere a interessi propri - non farà buon gioco a nessuna delle parti. Il non aver considerato la possibilità che si risolvessero problemi interni attraverso soluzioni interlocutorie considerato che l’Ucraina si presentava, e si presenta, come una sintesi pericolosa di una minoranza radicale che fa della russofobia la sua ragione esistenziale e dell’antieuropeismo, celato oggi dalla opportunità di professarsi euro-atlantici, un sentimento nascosto. E’, questo, infatti, il fantasma che si muove sul continente. Un fantasma che sembra essere nostalgico di ridefinirsi secondo categorie tipiche della Guerra Fredda nella speranza, del tutto fuori dalla storia e da una ragionevole visione intima del conflitto e delle esperienze politiche di Kiev e di Mosca, che una Ucraina occidentalmente democratica possa contaminare la Russia o che, la Russia, possa avere una sua Euromaidan, magari eterodiretta.

Ecco, allora, che senza avventurarsi nel dedalo delle cosiddette buone intenzioni contenute nei punti della Dichiarazione finale di Vilnius, sembra che nella capitale lituana si sia celebrata una sorta di apologia di un Occidente neoegemonico.  Tuttavia, a lavori ormai conclusi, stranamente vi è chi ha posto una questione di realismo necessario laddove si diffonde ormai l’opinione che non si può chiedere alla Russia di porre termine alle operazioni militari senza condizioni, né credere che Mosca rinunci a possibili composizioni e compensazioni territoriali. E non si può neanche pensare che la leadership russa possa accontentarsi di veder partorire un topolino pur avendo provato a scalare la montagna ucraina. Due condizioni, queste, che se non considerate vedrebbero il conflitto dilatarsi nel tempo e che, pur giungendo ad una possibile tregua, in fondo senza certezze di condividere e accettare nuove o vecchie geografie, rischia di paralizzare ogni strategia occidentale nel medio-lungo periodo lasciando aperti nuovi e imprevedibili scenari.

D’altra parte, è sembrato sin troppo evidente che gli Stati Uniti giochino ormai la solita partita e, come sempre, lontano dalla propria homeland e, per questo, consapevoli della sacrificabilità altrui al di là di ogni pietismo di maniera. In questo, e subito dopo le conclusioni di Vilnius, dettate da un neoatlantismo apologetico piuttosto che realisticamente pragmatico, sembra che, e paradossalmente, negli Stati Uniti più che nella stessa Europa - ormai votata al sacrificio supremo, se necessario, di una possibile guerra giusta ma combattuta solo sul proprio continente - si affermi una visione di buon senso e di pratica utilità. Per una buona parte degli americani, infatti, si tratta di fermare la marcia verso la terza guerra mondiale sull'Ucraina ed è altrettanto interessante come e in che misura anche su riviste come «National Interest», ad esempio, del 10 luglio 2023 si possano leggere articoli per il quale Robert G. Rabil, docente di Scienza politica alla Florida Atlantic University insieme a Francois Alam, non perde l’occasione di aggiungersi allo stesso John J. Mearsheimer nel manifestare tutte le riserve per un conflitto che ormai sembra evidente si giochi su un falso senso della moralità (che significato si dovrebbe attribuire al termine unprovoked espresso nella dichiarazione finale di Vilnius per il quale la Russia non sarebbe stata provocata in tutti questi anni?) avvolto nell'arroganza, ricondotto all’interno di “calcoli machiavellici” per i quali Washington rischia di portare il mondo oltre il precipizio dell'abisso. E, per gli autori, ovviamente, ciò deve essere evitato (Americans Must Stop the March to World War III over Ukraine. Gripped by a false sense of morality enveloped in hubris and Machiavellian calculations, Washington risks taking the world over the precipice of the abyss. This must be prevented).

Una riflessione che non è certo così isolata in un’anglosfera che ha poco ormai di utile come narrativa possibile, pur richiamandosi ad una nuova missione di un homo europaeus ma, a quanto pare, sempre meno sapiens alla Kipling maniera, confidando nella tenuta di un hubris per il quale ci si può convincere di essere vincitori per autoproclamazione, per essere riusciti a dare della crisi una traduzione geopoliticamente possibile (per Alastair Crooke, l’hubris occidentale si presenterebbe come una narrazione dotata di unitarietà e coerentemente convincente al di là della realtà, per la quale sarebbero le  narrazioni così offerte che vincono le guerre e per le quali ogni battuta di arresto dello sforzo sul campo di battaglia è da considerarsi solo come un aspetto contingente e non definitivo - https://strategic-culture.org/news/2023/07/17/a-bonfire-of-the-vanities/). O, ancora, come sottolineato da Gray Anderson e Tommaso Meaney il 12 luglio in un articolo apparso sul «The New York Times» forse sfuggito alle rassegne stampe occidentali dal titolo Nato Isn’t What It Says It Is, leggere in salsa a stelle e strisce dei destini europei e convincersi che la guerra russo-ucraina non sia altro che una guerra surrogata attraverso la quale si dimostra come e in che misura l’Europa sia indiscutibilmente condizionata dalla stessa Nato e, quindi, dagli Stati Uniti. Nazione, quest’ultima per la quali, la Nato non è altro che una sorta di catena politico-diplomatica e militare che ha vincolato l’Europa ai desiderata di Washington al netto di ogni pretesa, se non velleità degli europei, di dotarsi di una propria autonomia oltre che economica e politica ma, soprattutto, strategica.  Ma non solo.

In tutto questo, c’è poco da essere anche filoatlantici o filoputiniani dal momento che sono proprio i nazionalismi sottesi all’opportunismo euro-orientale che limiteranno se non renderanno vulnerabile la stessa convivenza in futuro, oltre che allontanare ogni possibilità di negoziato. Le mire nazionalistiche della Polonia su Leopoli e i territori occidentali dell’Ucraina non sono certo una storia di oggi, e le concessioni di Stalin, georgiano, e di Kruscev, ucraino, prima o poi peseranno come debito storico anche nelle contrattazioni future. D’altronde, dopo l’ “amore” a guida Orban verso l’Ue sperimentato con il Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) oggi Varsavia tende a coagulare su di se i destini dei baltici e, se possibile, un pay off dalla crisi russo – ucraina usando la Nato mettendo in campo un triangolo, quello di Lublino a propria guida, attraverso il quale stendere le ali dell’Aquila bianca (nostalgica forse di quella Confederazione Polacco-Lituana esistita tra il 1569 al 1795) verso la Lituania e l’Ucraina. Una scelta che sembra approssimarsi verso quel rischio calcolato di trascinare la Bielorussia in un conflitto e che significherebbe portare la Nato sulla linea del fronte di una nuova guerra continentale. Un aspetto “politico” che non sembra essere emerso nel Vertice di Vilnius.

Insomma, se già l’allargarsi troppo rischia di aver fatto male alla Nato lasciando fuori la Federazione russa dal 2004 in poi, lo stesso dicasi nel permettere ad un alleato come il rieletto Erdogan di fare, da buon levantino, della dissimulazione un “carattere” della politica estera turca nei confronti della Nato e dell’Unione europea. Un alleato, quello turco, che con molta scioltezza diplomatica è stato amico dell’uno e dell’altro, barcamenandosi tra Stati Uniti della prima ora e un Putin in affanno sulle coste del Mar Nero e che a Vilnius, nel farsi portatore di un diritto di veto sulla Svezia ponendo sue condizioni, quindi rilanciando quanto già fatto a Madrid nel giugno 2022, ha creduto di poter sbilanciare a proprio favore le difficoltà della Nato e le aspettative di Putin. Tutto questo, a vantaggio di uno spostamento strategico a favore di Ankara ridisegnando un’ambizione neocaliffale che ne farebbe avamposto e garante del destino del Vecchio continente rispetto all’avanzata da Oriente.  Ma in questo sovrapporsi di intese e mezze o non dette verità, la narrazione di Vilnius avrebbe dovuto celebrare una unità di intenti e una capacità militare di azione, se fosse, altrettanto dotata di una propria rapidità di definire modalità e mezzi per chiudere una partita che potrebbe dimostrarsi cruciale per la stessa Nato e, ovviamente, decisiva per ciò che resterà dell’Europa come archetipo storico-culturale e storico-politico piuttosto della civiltà umana. E, questo, perché la guerra tra Russia e Ucraina non è semplicemente un conflitto dei confini, ma il conflitto tra due mondi che hanno rinunciato ad una complementarità per affermare nuovi possibili disegni di potenza ai quali l’Europa verrà sacrificata con grande gioia della Cina, che su tale possibilità fa dipendere la conquista e il suo consolidamento nei mercati dell’Occidente prima americanizzato e poi, se possibile, ricondotto sotto i favori del Dragone.

Alla fine, ciò che si è osservato non è altro che un insieme di rapporti più che di forza, personali tra strette di mano, baci e abbracci e per i quali lo strumento atlantico è e rimane solo un veicolo per difendere interessi che non sembrano in futuro essere prevalentemente europei ma che vedono cedere alle lusinghe d’Oltreoceano le leadership del mondo libero e meno libero europeo. Insomma, qualunque siano le posizioni più comode o che più ci piacciono da assumere nei prossimi mesi un solo dato resterà certo e incontrovertibile. Ed è che sia Kiev che l'Occidente dovrebbero essere preparati alla prospettiva di concessioni territoriali a favore della Federazione russa anche come possibile contropartita di un ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea se non nella stessa Nato con garanzie, in quest’ultimo caso, offerte nel senso dagli Stati Uniti, quindi dalla Nato, alla Federazione russa. Una possibilità quasi unica se non si vuole cadere nella vera trappola di Pechino che guarda con particolare interesse ad un Nuovo Ordine Mondiale che veda nello stesso tempo la frammentazione dell’Ucraina e un’implosione progressiva della Nato. Condizioni, queste, che rassicurerebbero la Cina nel poter esercitare un ruolo egemonico nell’indo-pacifico mentre Stati Uniti e ciò che rimarrà del nucleo originario dell’Occidente atlantico saranno impegnati a leccarsi le ferite e a ricostruire nuove relazioni continentali.

Probabilmente a Vilnius vi era ancora qualcuno che credeva che l’obiettivo della Nato, o, meglio, della “nuova” Nato fosse ancora sinceramente quello di “to safeguard peace, freedom and prosperity” e che “The fundamental purpose of NATO’s nucleare capability is to preserve peace, prevent coercion and deter aggression” come ricordava nel marzo 1952 un convincente Lord Lionel Ismay Hastings (https://www.nato.int/cps/en/natohq/declassified_137930.htm).  Ma i tempi sembrano essere cambiati e, siamo certi, cambieranno anche le priorità degli stessi membri della Nato e della nuova comunità euro-meno-atlantica allorquando i segni del conflitto non risolveranno ferite ancora aperte nel cuore dell’Europa. E, questo, perché, che piaccia o meno al neoliberismo postcapitalistico o al neoliberalismo globalizzante e omologante dei valori soprattutto degli altri, l’idea stessa di confine che segna una identità non farà altro che ricordare che anche una Nato senza confini precisi finisce per snaturare se stessa ponendosi e cercando di allargarsi tra Quad - Quadrilateral Dialogue e Aukus - The Trilateral Security Partnership vari in giro per il mondo, a meno che …non si trasformi in un’alleanza globale al servizio di un impero altrettanto globale.

Articoli correlati

Mare Nostrum o Mare Monstrum

Valchirie e cavalieri dell’apocalisse

© 2006-2022 Giuseppe Romeo
È consentito il download degli articoli e contenuti del sito a condizione che ne sia indicata la fonte e data comunicazione all’autore.
Gli articoli relativi a contributi pubblicati su riviste si intendono riprodotti dopo quindici giorni dall’uscita.

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.