A fare le cassandre non ci vuole molto, è sufficiente una buona dose di sensibilità d’animo verso eventi che si vivono quasi da protagonisti, seppur nelle distanze fisiche di un mondo non certo a nostra portata. Così come, anche a dividersi tra un genere e l’altro per definire quale parte del mondo, e del cielo, racchiuda la verità sembra porsi in quell’intima coscienza del futuro che restituisce a Tiresia, indovino e indovina a metà strada nella visione dualistica della vita, una buona dose di realismo nell’approcciare la complessità del mondo riportandolo verso nuove regolarità. Tuttavia, senza abbandonarsi a eruditismi classicheggianti, non sia mai poi si taccia chi scrive di saccenza da mercato, probabilmente, Guerra Fredda nonostante e illusione di aver vinto il premio del dominio del sistema-mondo, l’Occidente sembra ancora una volta soffrire forse della sindrome più semplice ma più pericolosa nella sua intimità culturale mai maturata in modo completo, ma affidatasi al fascino della Provvidenza a stelle e strisce: quella di un geopolitico Peter Pan.
Ora senza scomodare luoghi comuni e tornare sugli argomenti di una cultura anglo-globalista ricalcando le pagine e il carattere della creatura di James Matthew Barrie, o spostando l’attenzione sul fardello dell’uomo bianco di Kipling - che affida la narrazione del ruolo dell’Occidente anglofono in Asia Centrale al buon Kim - di fatto si potrebbe dire che il mondo vive ancora oggi il rischio di non definire non solo regole condivise, ma un ordine comune. Un ordine che sia sintesi e promozione di una nuova prospettiva di destino facendo sì che le nazioni, che ogni nazione e ogni comunità che in queste si riconosca si interpretino non come comunità di destino ma quali attori alla pari in una storia che segna di per sé destini comuni.
Che si affermino e si costruiscano nuove politiche egemoniche all’ombra della crisi russo-ucraina, ad esempio, sembra sia ormai chiaro ai più e, probabilmente, anche all’Occidente nella sua accezione geopoliticamente consolidata: ovvero, Stati storicamente europei per collocazione fisica e per cultura ricondotti all’interno di una cornice progressivamente dominante di chiara impronta anglosassone. Una prospettiva che esclude oggi una parte di sé, che riduce lo stesso spazio possibile di difesa che dovrebbe estendersi da Lisbona a Vladivostok. Non ci sono dubbi che la partita giocata nel tempo sia stata quella di affermare e consolidare una idea di potenza universale. Un’idea, capace di esorcizzare il pericolo di un declino possibile di un Occidente atlantico per il quale l’Europa rappresenta il terreno di consolidamento della capacità di dominio e di sopravvivenza economica e politico-strategica nei confronti dei non nuovi competitor della storia tornati da Oriente. Ma proprio in questo senso, si dovrebbe fare buon viso, anche se indigesto, su come e perché il principale esempio cui si ispira l’idea neoimperiale, cioè quello predestinato dell’esperienza storico-politica degli Stati Uniti, sia così fermo e risoluto a volersi porre come responsabile ultimo del futuro dell’umanità rischiando di trascinare, in un delirio di onnipotenza, ogni possibile proposta di sopravvivenza di un sistema ormai a più attori e poco incline a subordinarsi alle vecchie logiche del passato.
D’altra parte, la compulsività neo-neocon di Biden o la politica schizofrenica macroniana che si autodistrugge in Africa o l’eclisse della Merkel, ultima sopravvissuta ad un’idea di una Germania über alles e che invece crolla sulle incertezze e ambiguità di Olaf Scholtz, o guardando le paturnie olandesi del primo ministro o alla gioiosa, e comoda, subalternità italiana al sempreverde Tom, non si è vista all’orizzonte una decisa e ferma capacità, se non credibilità, di ben utilizzare la rendita geopolitica lasciata in eredità dalla fine della Guerra Fredda e dall’auspicata nuova era di cooperazione e dialogo finita troppo presto sui campi di battaglia dei Balcani, dileguatasi dall’Afghanistan e che da due anni gioca i supplementari con i colori, e il sangue, ucraino. Peter Heather nel The Fall of the Roman Empire: A New History of Rome and the Barbarians (La caduta dell’impero romano) ben descriveva motivi e limiti di una esperienza imperiale durata secoli, ma non certo immortale nella sua storia se non implodere su se stessa nel momento di maggior estensione e di maggior fragilità delle leadership.
Paul Kennedy nel suo The Rise and Fall of the Great Powers (Ascesa e declino delle Grandi Potenze) sembra non essere riuscito a insegnare all’Occidente vittorioso sulla pelle altrui - a suon di missili e minacce di inverni nucleari che avrebbero colpito principalmente l’Europa - quanto vi siano limiti e prezzi da pagare alle politiche egemoniche e il cui più alto epilogo è rappresentato proprio dall’uscire dalla storia. Ed è in questo dilatarsi delle possibilità europee in termini economici, e nello sfaldarsi man mano dei valori sui quali l’Occidente ha costruito il suo significato geopolitico come attore definito da proprie prossimità culturali e da modelli economici e politici condivisi, che si rischia quel sorpasso da parte di chi, al contrario, nella solidità del proprio passato trova le ragioni per porsi come nuova alternativa alla guida del sistema-mondo.
L’Occidente, in fondo, declinante nel suo piegarsi all’omologazione neoliberista e nel rinnegare l’idea di un’interdipendenza virtuosa scambiata con un globalismo senza anima e identità, perde di significato e, quindi, di autorevolezza nel volersi porre alla guida del mondo che sarà. La stessa cosiddetta dittatura delle minoranze, molto cara all’istrionico saggio di un buon generale italiano prodotto non a caso di un’estate torrida, diventa quindi null’altro che il risultato possibile per un Occidente democratico che rinnega se stesso in virtù di un senso di colpa dovuto alla falsa convinzione che una visione minoritaria possa definirsi discriminata in se stessa. Una convinzione, per i più ma non per chi ne manipola le coscienze, che fa dell’uomo nuovo occidentale, in senso lato, un prototipo di uomo privato della capacità di comprendere e autodefinirsi in ragione di una conoscenza dell’altro, ostaggio di un pensiero comune attraverso il quale si rende egemone anche un pensiero minoritario se strumentale agli interessi del potere e dei potenti. Una conoscenza, questa, che non certo si esaurisce per gli uni nell’annichilimento della minoranza e per gli altri nella polemica discriminante che difende se stessa nell’abbattere principi e valori cui si conforma una comunità coesa e che si riconosce in se stessa.
Il sovvertimento delle regole della stessa democrazia che suicida se stessa diventa sovvertimento delle relazioni umane rese vittime della tecnocrazia rivolta alla protezione del potere elitario, sia esso di parte delle società più evolute o funzionale alle ragioni di potenza. Una riorganizzazione dei rapporti di dipendenza che pone al centro l’idea della disciplina delle masse avvicinando il mondo libero ad un totalitarismo postconsumistico nel quale ogni libertà si condiziona secondo vincoli di valori non più riconosciuti come tali da chi resiste alle spallate del libero mercato delle anime. Tutto questo rende marginale l’Occidente e poco credibili leadership che non hanno contenuti se non slogan da svendere come se la storia della romanità o della stessa Europa nei secoli si possa vendere anch’essa alla libbra o man mano riporla nell’oblio nel momento in cui si tenta di trasformare la diversità da patrimonio a paradigma di totalitarismi di maniera dettati e regolati dalle leggi del mercato.
Anche credere di poter trasformare l’Europa in un modello di governance simile a quello degli Stati Uniti, potenza dominante alla ricerca di una sua continua battaglia storica sul Vecchio Mondo, rischia di determinare un conflitto interno se non una sanguinosa deriva omologante dovendo distruggere, se fosse, necessariamente secoli di storia per affermare un modello unico di consumo e di potere. Insomma, incertezza, ambivalenza, fluidità delle relazioni umane nel senso biologico e politico, uno strumentale non senso della storia nel quale navigano a vista le leadership europee e d’oltreatlantico - che guardano ancora ad un mondo con proprie lenti, mentre ben altre focalità si apprestano ad offrire visioni nuove delle relazioni politiche ed economiche – rappresentano gli elementi di una natura politicamente morta. Così come vivere il mondo contemporaneo sembra per l’Occidente, da alcuni anni a questa parte, il dover superare quell’uomo-individuo tanto difeso per affermarne quella dimensione di destinatario di una prospettiva tecnofinanziaria che supera sia le ragioni dell’individuo che quelle dello stesso Stato come categoria politica ultima di organizzazione tra gli individui per giungere ad un nuovo modello di governo che possa affidare la sua tenuta alla insensibilità delle capacità del singolo, ad una nuova alienazione da consumo che non è più legata a canoni dialettici postmarxisti ma, questa volta, post-liberistici se non anche post-liberali.
In questo, la stessa Nato si pone come ultimo baluardo per dimostrare l’esistenza di un mondo di ieri che gioca con carte solo apparentemente cooperative, ma gestite da un mazziere consapevole di poter perdere il posto del banco. Quel banco, che vince e che non vuole perdere e che punta a piegare volontà altrui ai propri usi e consumi, giocando su valori incompiuti e su alleanze che sono giunte al capolinea della storia, che nell’aver rifiutato il cambiamento oggi rischiano di diventarne vittima. Atlantismo o meno, e europeismo da salotto, infatti, non convincono non solo il resto del mondo, comprensibile, ma neanche le comunità interne allo spazio euroatlantico dal momento che la diversità della percezione dei valori di solidarietà e cooperazione si confronta con un nazionalismo di ritorno che intende, al contrario, guidare le scelte sulla sicurezza e difesa continentale. E, tutto ciò, in una corsa a credere che la soluzione del conflitto russo-ucraino, che non è altro che il prodotto ultimo di un’ambiguità dovuta alle sempre meno nascoste intenzioni d’oltreatlantico di difendere una egemonia in declino, fosse una crisi tra Russia e Nato mentre, al contrario, essa è l’epifenomeno di una sorta di coscienza autodistruttiva di quanto di buono l’esperienza atlantica e quella dell’integrazione europea avevano messo in campo almeno sino al maggio del 1997.
Ecco, allora, che guardando ad un passato non archiviabile per onestà, e rileggendone i passaggi più significativi dovremmo ricordare quell’Uomo senza qualità (Der Mann ohne Eigenschaftendi) di Robert Musil dove il disarmante dialogo tra Tuzzi e la figura del protagonista Ulrich disegnano l’animo che ancora oggi contraddistingue quella comunità di vittoriosi che con le sorti dell’Ucraina giocano al Risiko della storia. Ulrich, idealtipo che riassumeva in sé le “non qualità” del secolo appena iniziato, il Novecento, in una Vienna pronta a celebrare la ricorrenza della salita al trono di Francesco Giuseppe, ai margini dell’avvio della Grande Guerra, sottolineava come “I militari non dovrebbero pensare che alla guerra e per tutto il resto rivolgersi agli organi competenti. Ma piuttosto che far così preferiscono mettere in pericolo il mondo intero con il loro dilettantismo. Le ripeto: nulla è più pericoloso in diplomazia come ciarlare a vanvera di pace! Ogni volta che il bisogno di pace cresce fino a un certo punto e non si può più contenere, ecco che ne risulta una guerra. Glielo posso dimostrare documenti alla mano.”
L’Occidente di oggi, nel suo politicamente corretto e nelle splendide e ancora lucide uniformi e nelle ben pagate carriere nella Nato crede di poter giocare sulla pelle di Kiev la sua credibilità per essere guida del futuro, o sulla fine della Russia come storia di un popolo e di una cultura senza preoccuparsi che le onde d’urto di un capovolgimento dei termini di potenza alla fine ritornano all’origine, modificando ogni assetto anche quello ritenuto più inattaccabile. Per questo, le considerazioni di Ulrich sono le riflessioni qualunquistiche di un nichilismo che pervade e ispira il protagonista nell’inconcludenza delle proprie giornate vissute sull’onda di un quotidiano che sembra non avere né un passato né un futuro, e non sono poi così prive di un certo realismo.
L’ Europa come Occidente per differenza, sperimenta, alla fine, come e in che misura il dilettantismo, o meglio una certa superficialità consapevole, si sia impadronita della politica continentale. Lo stesso concetto del comprehensive approach, su cui si era costruito quel dialogo tra Nato e Federazione russa nel passato per il quale si poneva, quasi in una posizione paradigmatica di comodo diretta a giustificare, da Roma 2002 sino a oggi, un’Alleanza necessaria, non è più un valore ma un disvalore perché comprendere non è una virtù. Alla fine il limite della stessa Nato risiede proprio dall’aver capovolto i termini della sua esistenza storica rischiando di non essere più una sorta di erede di valori occidentali coniugati con una declinazione europeista, ma espressione ormai sempre più diretta di una politica egemonica che fa della Nato uno strumento geo…politico per conto altrui.