Ricordava in tempi lontani George Washington, nel suo Fareweel Address, una sorta di testamento ideologico o, meglio, una guida politica per l’avvenire, che gli Stati Uniti avrebbero dovuto rivolgere l’attenzione ai propri interessi e non farsi coinvolgere nelle cose europee. Una visione che mirava a consolidare una nazione con uno spirito di missione dettato dall’essere, gli Stati Uniti, quella nuova Terra Promessa che avrebbe dovuto rappresentare il motivo della nuova esperienza storica appena apertasi, ponendo in essere regole di condotta per la politica estera futura. Una politica verso l’ “altro” di una nazione per la quale l’idea di “estero” non è certo motivo per determinare confini netti e insuperabili per un’idea di Stato che sin dalla sua Dichiarazione di Indipendenza si approssimava a volersi presentare quale guida politica, economica e morale del mondo e risolvere, con i suoi valori costitutivi, il dilemma della felicità dell’uomo nel valorizzarne le qualità quale concretizzazione della volontà della stessa Divina Provvidenza.
Oggi nel momento in cui torna in auge una presidenza che per alcuni salverà il mondo o per altri replicherà dubbi e incertezza come nel passato, probabilmente le considerazioni da fare sarebbero tante. Tutte ragionevoli nell’universo degli analisti da tastiera che tirano, tutti avversari compresi, la giacca del Donand a stelle e strisce credendo, alcuni, che salverà le sorti di un’Europa miope, incolore e senza qualità, o la costringerà, per gli altri, a vivere ai margini di un’epoca che ricolloca al centro degli eventi quell’Orientale cui guardano gli Stati Uniti dalle finestre californiane aperte sul Pacifico.
La realtà americana, con buona pace dei democratici, sovranisti e populisti europei è ben diversa e vani sono i tentativi di poterla comprendere se non si supera quel limite tipico che cerca di interpretare la complessità degli Stati Uniti utilizzando le stesse categorie politiche europee. Categorie per le quali, ad esempio, un democratico italiano sia pari per idee e posizioni a un Dem americano o, un repubblicano dell’Old Party associabile a un sovranista di destra. Approcci superficiali, crollati uno per uno di fronte a scelte degli Stati Uniti per le quali ciò che è al centro di ogni azione e iniziativa è il come e in che termini si possa/debba perseguire quel “national interest” che, con buona pace dei democratici casalinghi, probabilmente avrebbero difficoltà a pensare a un democratico alla Theodore Roosevelt con la sua politica del “Big Stick”.
Una superficialità dimostrata da come e con quali argomenti, se non con quali atteggiamenti, leader europei siano passati in poche ore dal ricordo di zio Biden e delle sue carezze alla manifestazione di una nuova fedeltà verso zio Donald che, di certo, non sarà sicuramente, lo vedremo presto, quel Duck disneyano che magari qualcuno pensava che fosse o pensa che lo sia ancora.
La verità del successo della presidenza di Trump è data dal rappresentare quel self made man che piace molto all’americano medio, che vede nel successo fuori dalle regole dei potentati una sorta di disegno provvidenziale, che non misura solo nel conto corrente del suo prossimo le capacità del singolo ma neanche nelle sue protezioni da parte di chi conta. Si potrebbe dire che si afferma, quasi a paradigma della cultura a stelle e strisce, quell’idea che del […] se vuoi una cosa te la devi prendere.[…] (The Departed). E’ in fondo questo il successo della tenacia di Trump e i limiti dell’establishment Dem della Casa Bianca a cercare di impedirne la corsa in tutti questi anni con seri rischi di tenuta interna della società americana.
Oggi, non solo si guarda a Trump con i dubbi di chi, in fondo, si è accodato alle intemperanze di Biden e dei neo-neocon sperando che gli Stati Uniti fossero sempre disponibili a mettere in gioco la loro credibilità e la loro potenza, ma vi è chi crede di poter vivere domani nello stesso mondo di ieri. Quel mondo non più eurocentrico ormai da anni e dove l’inerzia europea, determinandosi come attore protagonista, ha visto affidare i prorpi destini alle ragioni di Biden credendo che le prospettive o il sentimento americano di generosità verso l’Europa rimanesse immutato e immutabile nei secoli e, magari, anche gratis. Ma così non è stato come si è visto e non lo sarà.
La sopravvivenza degli Stati Uniti in un sistema internazionale fortemente competitivo, dove il rischio di perseguire una politica egemonica verticale può far implodere il sistema americano con una nuova crisi non solo economica ma anche e, soprattutto, geopolitica, rappresenta la vera sfida di domani mentre la sopravvivenza della Russia sembra non essere messa in discussione così come la resilienza cinese dimostra la forza storica del Dragone nonostante Taiwan. L’idea di poter replicare una American First postreaganiana, infatti, vede in Trump colui che dovrebbe assumersi il ruolo di rilanciare la funzione-guida degli Stati Uniti ma, questa volta, possibilmente, affermando una propria egemonia orizzontale. Ovvero, essere protagonista in un modello relazionale più cooperativo e, quindi, multilaterale.
Ecco perché oggi sembra quasi che, al netto delle analisi possibili, Trump abbia letto, forse per la prima volta, quel Farewell Address di George Washington il quale, congedandosi dalla vita politica, sottolineava, guardando al Vecchio Continente che […] Europe has a set of primary interests wich to us have none, or a very remote relations. Hence she must be engaged in frequent controversies, the cause of wich are essentially foreign to our concerns. Hence, therefore, it must be unwise in us to implicate oureselves, by artificial ties , in the ordinary vicissitudes of her politics, or the ordinary combinations and collisions of her friendship or enmities […]; per i più, letteralmente che […] L’Europa ha una serie di interessi primari che per noi non ne hanno, o che hanno relazioni molto remote. Perciò deve essere coinvolta in frequenti controversie, le cui cause sono essenzialmente estranee alle nostre preoccupazioni. Quindi, quindi, non deve essere saggio da parte nostra farci coinvolgere, con legami artificiali, nelle vicissitudini ordinarie della sua politica, o nelle combinazioni e collisioni ordinarie della sua amicizia o inimicizia […].
Insomma, agli europei tocca comprendere cosa intenderà Trump per America Firts in un momento storico nel quale la politica egemonica da unica potenza sopravvissuta al gioco bipolare ha man mano presentato i costi, soprattutto dovendo confrontarsi con nuovi player. Attori, ieri dormienti, oggi molto attenti a coprire spazi vuoti lasciati da quel mondo occidentale convinto di poter affermare, nel dovunque possibile, una sorta di supremacy senza anima. Il mondo che sarà non è eurocentrico. Sarà quello Non-Occidentale (non-Wester-World) quello dei Brics, quello di un nuovo ordine che gli Stati Uniti di Trump cercheranno di riorganizzarlo modulandolo su se stessi. Iniziando, ad esempio, dall’assumere una posizione interlocutoria nelle diverse crisi, lasciando, se fosse, anche ad altri partner il compito di provvedere alla soluzione (si immagini l’Unione europea costretta a dover risolvere la crisi russo-ucraina nel suo ambito economico, cioè a sue spese, prim’ancora che politico), consapevoli che la competizione può essere affrontata, ma partendo da nuovi basi di concretezza e solidità economica, oltre che militare, da ricostruire.
In Trump, sicuramente inconsapevolmente, è presente quell’intima connessione che per senso di appartenenza gli permette di esprimere due anime. Una tipicamente jacksoniana interpretata da quel Theodore Roosevelt del Big Stick per intenderci e della proiezione avanzata, e una jeffersoniana; ovvero, il mettere davanti la politica interna ritenuta necessaria, se solida, per sostenere ogni ambizione di proiezione verso nuovi mercati e verso i quadranti di interesse politico-strategico degli Stati Uniti del prossimo domani.
In questo, la piccola Europa rischia di perdere nuovamente quell’occasione di poter fare la differenza poiché si è ritirata da tempo accomodandosi sulle certezze di una difesa atlantica assicurata, sempre e comunque, dall’ombrello nucleare degli Stati Uniti. Quella differenza mai pervenuta che avrebbe dovuto consigliare, invece, maggiore precauzione prima di far fallire gli accordi di Minsk, di rivedere ruoli e funzioni degli Stati atlantici rapportati con l’Alleato principale, nel definire un quadro di cooperazione rivolto non a escludere ma a includere anche la Russia se necessario. Oggi, dopo aver letto pochi giorni fa sul Wall Street Journal che Trump avrebbe la soluzione per la crisi russo-ucraina e che questa richiede, per essere discussa, in via preliminare, il congelamento della situazione sul campo del conflitto russo-ucraino si comprende come i negoziati possibili inizieranno partendo dai fallimenti “sul campo” dell’Europa, della politica di Biden sconfessata dall’elettorato americano e delle scelte radicali assunte dalla presidenza Zelensky, forte e illusa nel perseguire le promesse “americane”o affascinata da promettenti ricchezze.
Congelare per negoziare significherà, quindi, rivedere i termini stessi delle relazioni atlantiche e i costi della difesa futura, considerando che Trump di certo non soprassiederà sulla questione del burden sharing. Tutto questo, potrà anche voler dire rimettere in discussione ruoli e ambizioni degli Stati Uniti, ma nella prospettiva di Trump - ma anche ben rappresentata dal punto di vista di un attento Michael T. Flynn in tempi non sospetti - diventa una scelta necessaria per consolidare quella potenza economica compromessa in impegni militari senza risultati. O, almeno, senza pay off ragionevoli per giustificarne lo sforzo e garantirsi un posto fondamentale nella nuova competizione politico-strategica.
Per fare un ulteriore passo nella storia, sarebbe opportuno ricordare che la stessa guerra del Vietnam dimostrò come e in che misura la sovraesposizione economica degli Stati Uniti, dovuta alla testardaggine di Lyndon Johnson, al livello politico, e di Westmoreland a livello tattico-strategico impedirono di poter competere alla pari nella corsa alla supremazia nucleare con un’Unione Sovietica volta alla conquista dello spazio. Ovvero, in corsa per assicurarsi la supremazia nel campo del saldo di ICBM esprimendo un differenziale tecnologico superiore, allora, a quello degli Stati Uniti. La scelta di Nixon, e di Kissinger, fu quella non solo di aprire alla Cina, ma fu dapprima quella di optare per la dichiarazione dell’incovertibilità del dollaro in oro, ponendo fine al sistema di Bretton Woods e, subito dopo, consolidare la forza economica del dollaro per poter reinvestire nuove risorse in campo tecnologico, riconquistando il terreno perduto nel campo della corsa alla supremazia nucleare.
In questo senso, Trump sembra a sua volta ereditare una situazione di estrema difficoltà del modello americano, della sua capacità di essere competitivo considerato che la sovraesposizione degli impegni militari negli altrovi geopolitici rischia di determinare quell’effetto di overstretching caro a Paul Kennedy nel suo The Rise and The Fall of The Great Powers. Un paradigma a sua volta, per il quale il sovradimensionamento degli sforzi, ovvero il superamento della capacità di sostenere una politica di potenza per un eccesso di spesa con un rischio di nuova crisi del dollaro sarebbe fatale per mantenere gli Stati Uniti sulla vetta del mondo e competere alla pari, se non oltre, con la Cina. In altre parole, sembra sin troppo chiaro, e a Trump probabilmente lo è, che il momento sia fondamentale per far sì che gli Stati Uniti, nel guardare al proprio interno, ridefiniscano e riorganizzino le proprie capacità produttive e di riconquista di propri ambiti di egemonia economica.
Cioè, di restituire al risanamento economico e al rilancio della produzione interna un ruolo fondamentale piuttosto che perdere terreno in una strategia avanzata che rischia di disperdere risorse e capacità già fortemente compromesse nella seconda guerra in Iraq, in venti anni di Afghanistan e in due anni di crisi tra Russia e Ucraina. Costi e dispersione di risorse, oltre che sovraindebitamento degli Stati Uniti che per Trump rappresentano, insieme al doversi accollare i costi dell’ignavia europea, il vero pericolo per la tenuta degli Stati Uniti in un’era di forte competizione. Un’era dove la credibilità diventa l’argomento migliore per poter competere, e magari far ragionare, Cina e Russia nell’interesse di tutti, anche dei piccoli e illusi europei.