Anche l’Italia ha scoperto gli Stati generali. E anche l’Italia ha scoperto, seppur tristemente, il movimento no-global che, nella sua colorata determinazione, avvolge tutto e tutti in un mondo di contestazione diffusa da non essere secondo a nessun altro movimento antagonista degli ultimi decenni. E adesso tocca alla scuola. Quella pubblica, ovviamente. Grande mobilitazione istituzionale e non verso una riunione importante per discutere di scuola, o per meglio dire, di offerta didattica. Cioè, del come si vuole riorganizzare la scuola pubblica e quale ruolo attribuire all’istruzione. Ma solo l’ennesima strumentale protesta senza proposte.
Progetti, sondaggi, opinioni, forum on line, analisi di efficienza, proposte di figure manageriali per trasformare in logiche aziendali logiche di pensiero, di elaborazione di idee quasi come se le nostre menti fossero funzionali all’impero del mercato sembrano questi i temi sui quali discutere di scuola. Tutto questo per sacralizzare, comunque, un momento importante. Un’occasione per uno Stato che non trova più se stesso, che non riesce a confrontarsi al suo interno e cerca nell’autonomia più estrema la propria possibilità di sopravvivere mettendo in discussione il proprio sistema formativo. Quel sistema a cui dovrebbe affidare la crescita dei propri giovani cittadini e, attraverso questi, il proprio futuro e la propria competitività culturale prim’ancora che economica. Abbiamo letto di tutto e saggiato i programmi di riforma di ministri succedutisi in poco tempo. Ma il problema rimane. Non penso si tratti soltanto di riorganizzare il sistema-scuola attraverso operazioni di verifica, ovvero di analisi e di rimodulazione della struttura organizzativa e dell’offerta, quanto di rimodulare il ruolo che alla scuola si vorrà attribuire. Sì, perché oggi più di ieri è un problema di ruolo. Di identità istituzionale che alla pubblica istruzione si vorrà affidare. Alla pubblica istruzione e non a quella privata. Cicli, crediti, debiti, formazione alternativa e differenziazione dei corsi, sono tutti strumenti di riammodernamento in chiave efficientista e di obiettivi. Ma il problema della scuola pubblica resta. Ed è quello di garantire agli studenti il meglio delle strutture e delle capacità didattiche facilitando l’accesso a tutte le categorie in un clima di confronto fra le diversità che allarga gli orizzonti di crescita e di dialogo.
Offrire l’opportunità di sviluppo in ogni angolo del paese, lasciando allo Stato il compito di garantire la crescita equilibrata della società nel rispetto dell’identità nazionale, al di là di qualunque obiettivo di decentramento, dovrebbe essere lo scopo strategico di un Paese che vuole essere competitivo nel suo insieme come sistema e non solo come produttore o promotore finanziario di se stesso. La scuola pubblica è nata dalla necessità di garantire un preciso diritto di crescita e di sviluppo a tutti i cittadini senza alcuna distinzione di ceto o di reddito. Dal più piccolo paese della Calabria sino alle grandi metropoli delle regioni a maggior opportunità. Per questo anche la parità scolastica fra pubblico e privato è l’ennesimo, ricorrente, “non problema” tutto italiano. Un problema politicamente posto ma giuridicamente già risolto dalla Costituzione nel prevedere una parità che non si afferma con un’elargizione senza discriminazioni di fondi pubblici, ma piuttosto attraverso la democratica garanzia di libertà di scelta per ogni singolo individuo, secondo le proprie possibilità e nel rispetto degli obiettivi comuni di crescita. Ad ognuno, quindi, la possibilità di accedere all’offerta didattica più adeguata alle proprie aspettative. Ad ognuno la capacità di potersi affermare secondo le proprie capacità. Ma allo Stato spetta l’obbligo - e il dovere etico e morale di fronte a qualunque giusta ed aderente riforma - di garantire la sicurezza del diritto allo studio e dell’impiego delle migliori risorse per l’istruzione pubblica, perché difficilmente la capacità di pensiero e la cultura possono essere finalizzate ad operare secondo rigide regole di borsa. Uno Stato senza storia è una nazione senza futuro. Uno Stato senza cultura è uno Stato senza identità. Uno Stato senza una scuola pubblica efficiente, custode delle tradizioni e delle identità nazionali e delle comunità che lo compongono, è uno Stato che affida all’egoismo del mercato, ad un’entità astratta e denazionalizzata, le proprie fortune e i propri disastri.