Credevamo, pensavamo, ci illudevamo che con La Sposa e con le critiche, se non dopo veri e propri strali indirizzati verso la produzione, si limitassero storie, happening e satire goliardiche di dubbio gusto sulla Calabria, magari convinti che nella saga del wedding da mercato cinematografico si fossero sopiti gli appetiti che fanno della Calabria un piatto da prima serata. Ma non è stato, non è e non sarà così.
Come non dovevamo, non dobbiamo e non dovremmo sorprenderci in futuro se faremo ancora parte, come calabresi, di banchetti da avanspettacolo o se la Calabria sarà, ancora una volta, quella terra di nessuno, per i calabresi a questo punto, e di tanti, coloro che la useranno a loro uso e consumo, utile e coreografica opportunità per disporre di uno spazio subculturale e, quindi, subnarrativo attraverso il quale fare audience o vendere libri. Già, vendere quei libri, riassunto se non remake di indagini il cui resoconto commentato vale più di un testo con l’originale a fronte.
Libri che sanno ormai di strenna e che per certi autori, il cui binomio è parte della letteratura di una terra che è solo criminale o scialba nei contenuti, popolano immancabilmente il banchetto delle novità delle grandi librerie, da Torino a Roma, da Milano a Napoli. Per non parlare di quella letteratura minore che cerca disperatamente di emergere seguendo la stessa strada dal momento che essa sembra essere l’unica, e la più probabile, per affermare quell’io da autore fatale che ogni scrittore insegue per giungere alla celebrità o, almeno, per potersi aggiudicare quella qualifica di esperto che dovrebbe aprirgli le porte del paradiso, narrando l’inferno.
Insomma, possiamo indignarci quanto vogliamo o ridere e accettare il senso comico di una Cenerentola versione calabra - per usare già un termine che imperversa nelle pagine web - e riconoscere in «Fiorenza la fata di Cosenza» il tentativo estremo per il comico pugliese, di far sopravvivere una comicità in caduta libera. Una comicità che si aggrappa all’unico modo per illudersi di essere l’interprete di un nuovo realismo della commedia all’italiana, senza avere nulla da poter vantare con predecessori di migliore ironia, se non quello di offrire una mediocre comicità che non fa ridere più nessuno: e cioè, usare la Calabria.
Ecco, allora, che nel festival degli orrori non solo musicali, ma del politicamente (s)corretto travestito da radical sciccheria, non credo però che il comico pugliese sia l’unico responsabile di una sorta di scorrettezza che ha scompigliato le regole di una liturgia (Corriere) che da anni è fuorviante e che di liturgico ha solo la celebrazione di un rito decadente replicato dovunque in Italia, al quale si sacrifica l’unica vittima possibile ancora disponibile: la Calabria. Certo, in molti di noi, resta quella speranza di Pascoli per la quale C’è qualcosa di nuovo sotto il sole di un inverno tutto italiano e non solo calabrese, ma non è così.
Ancora una volta si compie l’ennesimo atto di dissacrazione che dal già «Qualunquemente» allo sposalizio sensaliano mercimonico cinematografico si sposta sul piano dell’avanspettacolo di un festival musicale in formato similoperetta. Certo, ci si potrebbe consolare con un Oscar Wilde che fa dire al suo Dorian Gray There is only one thing in the world worse than being talked about, ...ovvero, Non importa che se ne parli bene o male l’importante è che se ne parli. Ma se così fosse potremmo sbatterci quanto vorremmo, mentre sembra non esserci altra scelta per la Calabria.
Perché tutto questo è favorito da un brodo di coltura politico e di cultura da street food alimentato da noi stessi, dalla nostra celebrazione di ciò che non è e dalla nostra ira per ciò che altri dicono essere. Perché, in verità, nihil sub sole novum o, parafrasando Erich Maria Remarque (si può citare?) perché prodotto dal fatto che noi “Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti”, salvo ri-svegliarci dal letargo quando su uno schermo, su un palcoscenico o nelle parole o nelle pagine di un libro forse ci riconosciamo, ci leggiamo come non vorremmo essere riconosciuti e letti. Perché, alla fine, non abbiamo ancora capito che non cambieremo mai le cose combattendo la realtà esistente così come rappresentata prima di tutto da noi stessi, ma solo costruendo, e difendendo, nuove narrative, nuovi modi di farci vedere e di farci raccontare.