L'Italia fuori dall'Italia
Politica estera in cerca d'autore 43
Commentare la politica estera italiana o, forse ancor di più, valutare quale sia la credibilità internazionale dell’Italia al di fuori dei nostri confini non è così semplice ed agevole. Motivi economici o opportunità di opzioni politiche da soddisfare per riuscire a far parte del grande gioco mondiale, oltre che quello europeo, hanno caratterizzato non solo i comportamenti di alcuni leader ma anche le scelte degli esecutivi. Scelte che hanno pesato e che ancora oggi pesano e che proiettano l’interesse italiano, dall’Europa, dalla Russia al Nord Africa, all’Asia Centrale. Certo, vi è una costante storica nella condotta della politica estera da parte dell’Italia negli anni immediatamente successivi alla Guerra Fredda e nell’epoca che viviamo. E, cioè, una sorta di incapacità di trovare una collocazione chiara e definita nella vita della comunità internazionale. Però, oggi, nel nostro quotidiano internazionale, nell’era dell’internazionalizzazione delle relazioni economiche, di fronte ad un’invasività dell’informazione, nell’incertezza di un ordine mondiale che non risponde a regole di potenza, ma a tentativi di potenze di attribuirsi la paternità di un equilibrio possibile l’Italia non può rischiare di perdere l’occasione di attribuirsi una sua dimensione politica. Un ruolo se non proprio da potenza determinante, quantomeno da interlocutore credibile non solo verso i partner di sempre ma anche, e forse soprattutto, verso chi comprende difficilmente le nostre posizioni internazionali, spesso poco chiare se non ambigue in ragione di idee politiche o convinzioni personali su fatti non distintesi per compiutezza.
L'italia in guerra 22
La guerra come soluzione mediata, la pace come conseguenza, guerra pacificatrice o pace conflittuale, questo è il dilemma del peace-keeping. Ma non è solo questo. Nella condotta delle operazioni militari italiane vi è una sorta di ambiguità di fine e di risultato che si somma alla volontà politica di definire un quadro condivisibile, perché strategicamente interpretato come tale, delle missioni fuori area. Peace-keeping e peace-enforcing diventano concetti operativi dai confini sempre più labili dove alla poca chiarezza dei compiti della missione segue l’approssimazione dello scopo e, quindi, l’interrogativo che il soldato si pone sulla natura della sua missione. Caligaris sostiene che se “[…] oggi in Europa non si parla di guerre non è perché la superiore intelligenza e saggezza degli europei le ha rimosse, ma perché per una serie di circostanze, a iniziare dall’accresciuta vulnerabilità degli Stati, non si sono creati i motivi per altre guerre interstato. Si deve anche ringraziare la Nato che, assicurando una sicurezza collettiva ai suoi membri, li ha implicitamente convinti a non dotarsi di forze nazionali che possano farsi la guerra. Niente più, quindi, guerre interstato in Europa, ma ciò non fa escludere che ove essa divenga autonomo soggetto politico possa battersi contro altre potenze o che singoli paesi europei non siano coinvolti in coalizioni chiamate a condurre la guerra. Quest’ultimo caso si è peraltro verificato più volte: nella guerra del Golfo, nel Kossovo e in Iraq […]”. Ma ci sono altri interrogativi che si sommano tra di loro complicando il quadro di comprensione del perché una missione militare venga condotta così lontano dai confini nazionali e per finalità che non sembrano coincidere perfettamente con un interesse nazionale. Per citarne alcuni, “[…] il dilemma se servire l’interesse nazionale o quello collettivo, quale ruolo esso debba assolvere in contesti da guerra civile, od etnica, quale legittimità dovrà avere il suo impiego, quale il suo rapporto con le popolazioni dei paesi occupati, quali condizionamenti avrebbe l’uso della forza da parte sua. Troppi interrogativi per un solo soldato […]”. Sempre per Caligaris “[…] così stando le cose, le precedenti domande andrebbero rivolte non ai soldati bensì ai loro patron politici a cui corre l’obbligo di dare risposte alle incognite. Non sono stati i soldati a compiere la scelta “umanitaria” o “guerriera”, bensì i rispettivi governi […] Al soldato compete saper fare il soldato in una ragionevole gamma di opzioni, perché se non lo sa fare qualsiasi altro requisito è superfluo […] C’è poi una lunga serie di problemi che toccano il soldato combattente e il suo rapporto con la Nazione. Gli si deve spiegare perché mai debba rischiare la vita, quale sia il suo rapporto con la Nazione, in quale considerazione sia tenuta la sua professionalità, quali siano le sue prospettive e così via. È demoralizzante che di tutto questo non se ne parli […] {L. Caligaris. Prefazione. In G. Romeo. L’ultimo soldato. Pace e guerra nel nuovo mondo. Milano, 2008, ndr}”.