A leggere diversi commentatori o ad ascoltare analisi ad ampio spettro in una versione quasi ossessivo-compulsiva che sembra contagiare ogni centro sino alle periferie mediatiche di un altrove improbabile, credendo di chiudere la partita prima o poi, dovremmo, alla fine, trincerarci nel «Che guerra sia!».
Senza essere troppo noiosi, al netto delle innumerevoli riflessioni che si susseguono nella nuova stirpe di analisti, civili e militari, soprattutto occidentali orientati a vedere solo con lenti di comodo ciò che accade, e senza cadere nel solito doppio standard per il quale Putin è un criminale, probabilmente da condannare se fosse, e un Netanyahu, più improbabilmente, da santificare, resta fermo un punto sul quale non ci si sofferma abbastanza: la storia processa in modo diverso e, senza una coscienza e memoria degli errori, lascia sempre conti in sospeso.
L’articolo di Rampini sul Corriere, ad esempio, Ucraina, la guerra e le lezioni da capire è di per sé interessante dal momento che ci induce a chiederci se, a distanza di descrizioni, giudizi, consigli e scelte politiche che si contraddicono nella sostanza anche se poi sembrano coerenti nella forma, c’è ancora da capire qualcosa. Cioè, sembra che la nebbia della guerra, che fatica a dissolvere circostanze e convinzioni, non si sia abbastanza diradata per comprendere che la ricerca della pace sia una necessità non solo per porre fine al massacro, ma per ricomporre un quadro giuridico violato e un quadro politico più sincero. Un quadro, capace di riconoscere i termini di ipocrisia con i quali si è barattata l’idea di una sovranità da tutelare con una volontà di proiettare interessi neoimperiali in Europa e verso Est. Un’idea di rinnovata egemonia possibile a stelle e strisce dove il mai dimenticato fuck-Ue della Nuland restituisce all’interpretazione freudiana l’importanza del retropensiero.
La responsabilità “giuridica” dell’Occidente è quella di aver accreditato la guerra preventiva (preemptive war/preemptive strike) come legittima credendo che ciò sarebbe stato solo una prerogativa, quasi un diritto di esclusiva per i paesi cosiddetti democratici. In realtà l’operazione speciale russa si è autodefinita all’interno di questa presunta legittimazione nel condurre un’operazione che di fatto doveva rappresentare nient’altro che la versione russa di quella americana di preemptive-strike. Ovvero, a richieste reiterate più volte e andate a vuoto alla Nato di riconsiderare lo schieramento di truppe e sistemi d’arma in Ucraina, rispondere preventivamente percependola come una minaccia. Una percezione che doveva essere considerata, al netto di ogni giudizio di valore su etica e morale, da parte dell’Alleanza.
D’altra parte, era ben noto che ogni spostamento in avanti verso l’Ucraina aveva più ragioni nell’interesse degli Stati Uniti e poco conto nel definire uno stato di equilibrio in Europa, di per sé già precario verso Est. Dal 2014 ai primi mesi del 2015, oltrepassando il fronte di piazza Maidan, e dopo i nuovi scontri a distanza di un anno all'aeroporto di Donetsk - che provocarono morti tra civili da entrambe le parti con Germania e Francia impegnate a condurre un tentativo di mediazione al di fuori delle indicazioni di Washington - lo stesso Putin dovette resistere a pressioni interne che ritenevano già da allora esistenti le premesse per un preemptive strike in stile americano.
Oggi, oltre le riflessioni di Rampini, tutto è molto chiaro e anche troppo. Sono chiari i presupposti della crisi, giuridici e politici dal momento che l’aspetto politico, nel definire una credibilità del diritto in campo internazionale, ha tutt’altro peso rispetto agli ordinamenti nazionali e i confini tra morale, etica e diritto sono estremamente sottili se non, spesso, poco percepibili. È sin troppo chiaro che non si è di fronte a una guerra assoluta, perché nessuna delle due parti si prefigge di perseguire uno scopo definitivo, cioè di imporre un ordine egemone. Forse questo potrebbe interessare la Nato o una certa Nato vista da Washington, convinta di poter fare ancora la differenza nel prossimo futuro. Inoltre è, altrettanto, molto chiaro che si è trattato di un conflitto che sembra aver impoverito più l’Europa a vantaggio degli Stati Uniti piuttosto che la Russia di Putin che raggiunge un + 4% del Pil e un aumento medio dei salari pari al 18%. Tutto questo, mentre uno attento alle cose europee come Mario Draghi snocciola dati presso la Commissione europea e richiama alla necessità di un nuovo piano Marshall, un nuovo indebitamento senza garanzie, per restituire la competitività perduta a una Unione europea, nostro malgrado, asfittica e marginale.
Indicazioni anche comprensibili, quelle di Draghi, a patto che oltre a parlare di competitività economica a premessa del rilancio di una giusta ambizione per trovare modi e termini - se non politiche e ancor di più risorse, per restituire slancio al processo di integrazione continentale di cui si sono perse da tempo le tracce di come giungervi - si aggiunga, anche, qualche parola alla questione della credibilità strategica che non trova alimento se non da una narrazione di un canone inverso della Nato. Un canone ormai non più spendibile al di fuori dell’essere solo una semplice fornitrice di armi.
E sia chiaro. Non è in gioco la Nato come idea di alleanza la quale potrebbe sopravvivere anche all’esperienza del momento se solo gli europei, quelli convinti nel voler creare uno spazio di sicurezza e difesa comune che possa andare da Lisbona a Vladivostok, guardassero con realismo a quanto accade sul campo di battaglia, al netto degli errori commessi e delle narrazioni vendute come certezze.
Insomma, cercando di restare ancorati a una decisa e obiettiva visione di quanto accade, non sarebbe stato certo impossibile per Mosca dirigere ogni sua capacità militare cercando di massimizzare lo sforzo se si fosse posta come obiettivo la distruzione dell’Ucraina. Ma così non è stato per due ragioni che segnano la condotta del conflitto. La prima, consolidare la propria presenza nelle province del Donbass; la seconda, consolidare, e ricondurre, i destini della Crimea a quelli della Grande Madre. Il tutto mentre la Nato, ovvero gli Stati Uniti, in forte debito strategico nel mondo e votati a mantenere il controllo dei destini dell’Europa - quale ancora economica e spazio di mercato e sicurezza avanzato, a difesa di nuove minacce provenienti dal resto del mondo verso la propria leadership - conduce una chiara guerra per procura negando a se stessa quel ruolo di garante della sicurezza continentale che nel maggio del 1997 aveva visto rivolgersi anche alla stessa Russia.
Un ruolo riconosciuto con l’accordo Solana-Primakov che nel cercare di limitare i dubbi russi sulla bontà e non strumentalità della Partnership for Peace attraverso il cosiddetto NATO-Russia Founding Act - formalizzato poi nel 2002 alla presenza di Putin, a Pratica di Mare con l’avvio del Consiglio Congiunto Nato-Russia - si doveva cercare di salvare il salvabile, ottenendo l’impegno dell’Alleanza a non schierare, ad allargamento ad Est avvenuto, sistemi d’arma nucleari, forze e basi permanenti, e sistemi missilistici in grado di colpire il territorio russo. Ciò non avrebbe rappresentato altro che una continuità con la promessa già formulata dal presidente Clinton, nel 1993, nella sua conversazione telefonica con Eltsin, quando il presidente russo chiese al suo pari americano di sostenerlo nel garantire condizioni di sicurezza da parte della Nato per facilitare l’approvazione da parte della Duma dell’accordo sulla Partnership for Peace; quest’ultimo, vero e proprio cavallo di Troia deciso a premessa dell’allargamento a Est dell’Alleanza, dalla quale non sarebbe stata esclusa la stessa Russia.
Oggi, di fronte ai risultati di ambiguità e piccoli giochi diplomatici dalle grandi conseguenze si raccolgono i morti su un campo di battaglia che insanguina l’Europa. E, in quest’ottica, che si tratti delle dichiarazioni insensate di un Lloyd James Austin III che non esclude, da buon generale che va per le spicce, una escalation nucleare se necessario, ovviamente da risolversi sulla pelle degli europei, o le stesse di un Josep Borrell divenuto stratega suo malgrado - che ritiene che Kiev possa condurre con efficacia un attacco in profondità verso obiettivi militari russi, senza considerare la capacità di Mosca di arretrare in ampi spazi per porre in essere condizioni migliori di contrattacco - nulla sembra accreditare un successo totale e assoluto.
In fondo, senza andare lontano, anche il breve sfondamento delle linee russe a Kursk poteva avere una ragione: sottrarre forze dal Donbass e alleggerire la pressione sugli altri fronti cercando di far respirare le forze di Kiev in affanno. Ma a fronte di due e ben più organizzati e sostenuti tentativi messi in campo nella storia con le avanzate verso Mosca di Napoleone e di Hitler, entrambi falliti, bisognerebbe chiedersi sino anche punto uno sforzo principale in profondità poteva essere supportato con una catena logistica sempre più lunga e, quindi, sempre più vulnerabile con il pericolo di un taglio dei rifornimenti, l’isolamento delle forze avanzate e il loro annientamento. Certo, in linea di principio, avendo chiaro cosa si vuole raggiungere come risultato sul campo di battaglia, e potendone sostenere i costi, è giusto rispondere con attacchi in profondità. Ma per la Russia tutto questo non è un problema disponendo di un retroterra strategico importante, capace di garantire la riorganizzazione delle forze e il contrattacco.
Certo giocare a RisiKo sul tavolo dei talk show o esercitarsi sulle pagine di giornali e webzine quando la pelle in gioco è quella altrui è sin troppo semplice. Ma, allora, se così è, forse l’unica vera cartina di tornasole per testare le capacità dell’Alleanza, e la bontà degli analisti neoatlantici, sarebbe proprio sperare in un conflitto aperto con la Russia. E non sarebbe difficile. Seguendo i consigli di Tony Blair e di Scholtz nel dover attaccare la Russia con armi fornite dalla Nato sul territorio russo si manifesterebbe una dichiarazione di guerra che trasformerebbe ogni Paese Nato da belligerante in parte del conflitto e, tutto questo, magari per la Nato, riproponendo una nuova Guerra del Peloponneso per ristabilire, in fondo, solo una possibile e ingannevole egemonia regionale per chi sopravviverà.
Ma, se così fosse, si dovrebbero fare i conti su chi ci starà a combattere e chi si sfilerà con buona pace di Zelensky e degli stessi ucraini sacrificati sul campo della supponenza dove il cambio dei ministri in Ucraina, soprattutto con la sostituzione di Kuleba, sembra aprire a una consapevolezza che non vi saranno nuovi passi verso una vittoria definitiva se non dall’una, neanche dall’altra parte.
Comprendere la grammatica della guerra, di ogni guerra può essere complicato. Ma lo è se si trascura il fatto che la guerra è e resta un atto politico, squisitamente politico. La provocazione atlantica è stata un atto politico, così come la risposta aggressiva della Russia è stata un atto politico e le ragioni sottese si dividono tra l’affermazione di un diritto, la sovranità ucraina, e il senso di sopravvivenza di una nazione nella sua storia, la Russia.
Certo, Putin potrebbe anche essere ritenuto una nuova versione di autocrate fermo restando l’80%, poco importa se perfettamente reale, dei consensi di cui gode in Patria con il suo viso imperturbabile e a volte anche cinicamente rassicurante. Ma la domanda è: siamo sicuri che non trattare con Putin oggi sarebbe meglio aspettando una nuova leadership al Cremlino? Chi garantirebbe la Nato di poter negoziare con espressioni più moderate se non, al contrario, con quei neocons russi che rinfacciano a Putin di non essere stato abbastanza risoluto nel chiudere i conti con l’Ucraina e con la Nato? E, ancora, sino a che punto si può giudicare un leader senza fare i conti con la storia e con il popolo che rappresenta, a condizioni date, in assenza di altre leadership?
Forse chiedere prima a Orban o allo stesso Erdogan, quest’ultimo detentore della maggior fetta delle forze convenzionali della Nato, su cosa fare nel frattempo non sarebbe male. O attendere di vedere come e in che misura la nuova Germania uscita dalle urne pochi giorni fa si riposizionerà nei confronti di un conflitto, quello russo-ucraino, per il quale ha pagato i più alti costi economici sacrificando la propria competitività e vedendosi drenare importanti risorse economico-finanziarie.
D’altra parte, siamo sinceri, la Nato, se fosse, non combatterà apertamente contro la Russia perché non solo sarebbe fuori dal trattato un impegno a favore di un Paese non-Nato a meno che, come in stile Tonchino e altri precedenti e successivi gli Stati Uniti o chi per loro, pianifichino e diano corso a una operazione di false flag per rendere possibile un impegno article-5. E, anche se fosse, sarebbe interessante scoprire come Orban e Erdogan reagirebbero domani quando tra pochi giorni proprio il Presidente della Turchia, alleato insostituibile e di cerniera, che sembra guardarsi intorno, avendo confermato la propria presenza, parteciperà al vertice Brics a Mosca il prossimo ottobre. Di sicuro, scendere in campo, sarebbe la fine della Nato prim’ancora di sparare un colpo, oltre che di una parte della Russia che conosciamo in caso di conflitto. Di certo sarebbe la fine di ciò che resterà del dominio anglosassone nel mondo e dell’Europa come idea politica e culturale, oltre che come popoli con le loro esperienze storiche gettate nell’abisso dell’apocalisse.
Alla fine, tornando al se ci sono ancora lezioni da capire, il sovrapporsi di crisi e l’aumento del caos sono gli elementi geopolitici con cui l’Occidente sarà costretto a confrontarsi senza avere una bussola per navigare in acque nuove e più dolci restando, al contrario, una periferia dell’impero americano senza controllo, in acque turbolente, con il centro cui guarda oltre Oceano incapace di definire la sua stessa autorità. Questo, dal momento che Washington sperimenta una mai così poca autorevolezza in Asia come in Medio Oriente dalla fine della presidenza Lyndon Johnson sino a Jimmy Carter.
Le ragioni ungheresi e quelle italiane, in questo gioco pericoloso, alla fine si sovrapporranno, anche se Budapest si esprime oggi ricorrendo a meno aggettivi di comodo di quanto non ne usi Roma e, a Budapest e Roma, seguiranno anche altri, la Germania in particolar modo.
Il vero problema per chi dovrà fare i conti con il prossimo futuro, che vede Pechino riorganizzare i termini di relazione non solo in Asia ma anche in Africa, sarà come non perdere di aderenza con una soluzione possibile posto di fronte a un possibile cambio di direzione e di narrazione. Cioè, avere l’umiltà di tornare a un possibile punto di ripristino precedente il 22 febbraio 2022, magari tornare allo stesso 27 maggio 1997, considerando che la fine se non la scomparsa della Russia non sarebbe positiva per il futuro dell’Europa e della sua sicurezza guardando a Oriente e per la stabilità delle stesse periferie dell’Asia Centrale. E, questo, considerando che l’Occidente, a quanto pare, non ha un Michele Strogoff sotto mano capace di sopravvivere a un nuovo Feofar Khan.