
Dal dinamismo neoterzomondista, a cui abbiamo creduto di rispondere con le teorie da esportazione di democrazia con gli interventi militari, alla presunzione di poter modificare i termini politici di popoli che hanno altre culture e dinamiche rovesciandone i regimi finendo, poi, per favorire condizioni di instabilità ancor più gravi. Situazioni, queste, per le quali non siamo stati in grado, e non lo siamo tutt’ora, di dare risposta per assenza anche di quel minimo interlocutore su cui si poteva contare in passato. Ma non solo. Dopo aver destabilizzato un fragile quadro geopolitico che distingueva il Mediterraneo da altre realtà per la sua eterogenea complessità - senza orientarci a garantire iniziative di inclusione e di stabilizzazione delle economie e di sostegno alla crescita politica degli Stati del Nord Africa e del Medio Oriente - ci siamo trovati meta di un flusso migratorio che è nemesi, oltre che conseguenza, dell’approssimazione delle politiche europee ed occidentali comprendendo, in queste, quelle degli Stati Uniti.
E, sempre molto presi dal dover trovare soluzioni o attribuire colpe, ecco che ogni accordo si è frantumato, si sono disperse le convergenze ed è iniziato quel balletto rivolto a distribuire responsabilità, vere o presunte, dal momento che il risultato di politiche poco efficaci, e meno che mai lungimiranti, ci ha presentato il suo conto. Le migrazioni ci sono sempre state e, credo, che questo non sia il problema. Il vero problema è il non voler considerare come, e in che termini, “questa” migrazione è stata provocata e come, e in che termini, essa poteva essere evitata. C’è chi si è avventurato come sempre a ricercare luoghi comuni, come la necessità di una redistribuzione della ricchezza tra Nord e Sud del mondo. Ma anche questo sembra essere un argomento fragile dal momento che, messo da parte l’alibi del passato coloniale e fatti i conti con una decolonizzazione che ha evidenziato i limiti delle leadership dei nuovi Stati, dovremmo chiederci perché modelli di cooperazione in termini vantaggiosi, non solo per il Nord del mondo ma anche per il Sud, istituiti in passato siano stati abbandonati.
Esperienze interessanti come quelle rivolte al riconoscimento di corsie preferenziali, sia doganali che di sostegno alle esportazioni quali furono, ad esempio, i programmi Stabex[1] e Sysmin[2], voluti sin dagli anni Settanta dall’allora Comunità Europea. Oppure che fine hanno fatto gli accordi con i Paesi dell’Africa del Sud-Est. O, ancora più gravemente, perché si è abbandonato il programma di cooperazione politica ed economica nel Mediterraneo del 1995, conosciuto come processo di Barcellona, all’interno del quale era stata ipotizzata anche una sorta di Conferenza per la Sicurezza e Cooperazione nel Mediterraneo (un omologo di quella che era la CSCE oggi OSCE). Ma non sarebbero i soli interventi, ben finanziati, andati a vuoto. In una realtà dominata da una limitata capacità di previsione e ancorata ad una visione burocratica delle relazioni politiche, il risultato non poteva che essere una sconfitta di ogni iniziativa intrapresa per ragioni più di credibilità di governo piuttosto che di credibilità dei risultati.
Il fenomeno migratorio che oggi rischia di mettere in ginocchio l’idea di un’Europa credibile e cooperativa è, in fondo, l’epilogo di una errata interpretazione del ruolo di potenza dell’Ue che, di fatto, non ha e non può avere le stesse ragioni di proiezione avanzata di potenza come gli Stati Uniti. L’Ue è, in fondo, un’idea di cooperazione che dovrebbe mettere al centro la salvaguardia economica e non solo dei cittadini che in essa vi si riconoscono e non accodarsi, al contrario, ad analisi politico-strategiche pianificate altrove ritenendo di poter essere così, una potenza…impotente. Ma non solo. La stessa appartenenza all’Unione Europea non può essere considerata come un ombrello per giustificare politiche nazionali pronte a battere cassa. Ogni nazione, per quanto europeista, non può non avere una propria idea di quale debba essere il suo ruolo, di come tale ruolo andrebbe esercitato all’interno di un modello cooperativo di relazioni politiche ed economiche.
Il balletto di Parigi di qualche giorno fa o le dichiarazioni, tardive, della Bonino, non fanno altro che dimostrare quanto, paradossalmente, non vi sia mai stata una idea chiara di cosa fare in passato. Sia per favorire i processi democratici nei paesi in crisi nella regione mediterranea senza sovvertirne i regimi e sostenendone il cambiamento fisiologico, sia nel creare le condizioni di crescita economica e civile per limitare non solo le migrazioni di oggi, ma la recrudescenza del radicalismo integralista che sull’esclusione arruola sempre più anime. Leccarsi le ferite oggi, o nascondersi dietro un qualunquismo perbenista neoumanitarista non aiuterà nessuno. Né l’Europa, e con essa l’Italia, a riconquistare quella poca credibilità orami perduta. Né a far si che i migranti siano alla fine integrati in società già sature in termini di possibilità economiche dal momento che l’economia europea non cresce se non in alcuni Stati membri, e non certo in Italia.
Se così è, tutto l’impianto ideale dell’Ue finirà per sgretolarsi e le ragioni che ne erano alla base, sicurezza e crescita, si dissolveranno man mano nelle ombre dei nuovi emarginati che troveremo agli angoli di ogni città, dove alla povertà degli europei si aggiungerà quella di importazione. Sono questi i termini di riflessione per chi insegue credibilità ieri a Parigi, oggi ad Amburgo come altrove. Ma è forse più semplice esprimerlo a parole che affermarlo con fatti concludenti e concerti, assumendosene la responsabilità di quanto sarà deciso. Ci vuole coraggio nelle scelte. Lo stesso coraggio con il quale Papa Giovanni Paolo II offriva già in passato la soluzione, per quanto riguarda “questa” immigrazione, che oggi nessuno vuol trovare. E cioè, che“…Costruire condizioni concrete di pace, per quanto concerne i migranti e i rifugiati, significa impegnarsi seriamente a salvaguardare anzitutto il diritto a non emigrare, a vivere cioè in pace e dignità nella propria Patria…[…].
[1] Meccanismo di stabilizzazione dei proventi derivanti dalle esportazioni dei paesi del gruppo ACP - Africa Caraibi Pacifico e aderenti alle Convenzioni di Lomè. Il meccanismo era molto semplice ma efficace: se i proventi dell'esportazione di un prodotto di base agricolo scendevano sotto la media presa a riferimento, la Comunità Europea avrebbe provveduto ad un contributo con lo scopo di ricreare equilibrio nella bilancia dei pagamenti.
[2] Stessa cosa dello Stabex, ma applicato ai prodotti minerari. Se i proventi dell'esportazione di un prodotto minerario scendevano sotto la media presa a riferimento, la Comunità Europea avrebbe provveduto ad erogare un contributo con lo scopo di ricreare equilibrio nella parte della bilancia dei pagamenti che riguardava tali beni sempre secondo quanto previsto dalle Convenzioni di Lomé. Per questo meccanismo i paesi a cui veniva riconosciuto tale trattamento avrebbero avuto il diritto di ricavare almeno il 15% dei loro proventi totali dall'esportazione di beni minerari.