

In questo risiko mediterraneo, l’Italia si muove - e non è una novità ma una drammatica regolarità - con una politica estera non di unità nazionale, ma di rinnovata diversità di approcci che non giungono a posizioni di sintesi né nelle aule parlamentari ma, soprattutto, nemmeno nella condotta di una diplomazia concreta nel proporre soluzioni possibili e azioni concludenti al di là di telefonate di cortesia e offerte delle solite truppe di interposizione. Il Medio Oriente, il diritto palestinese ad un’autonomia nella loro terra e di Israele a sopravvivere nella terra dei padri condividendone il destino della Palestina è, ormai, una prova di capacità di dialogo e di convivenza, una scommessa politica. Un azzardo sul quale si gioca il futuro di un mondo diverso. Un mondo che riconosca al diritto internazionale e alle regole comuni da questo derivate l’essere un valore.
Un mondo dove le norme condivise siano null’altro che la necessaria condizione per poter far crescere economicamente e socialmente le comunità, limitando le sacche di povertà e di esclusione sulle quali si inserisce la lusinga integralista di un fondamentalismo politico emergente. Qui non si tratta di misurare quanto sia legittima la reazione di Tel Aviv in un gioco da esercizio giuridico sull’applicabilità o meno di una norma di legittima difesa. Né credo vi sia da discutere molto circa il ruolo assunto dall’Iran nel gioco mediorientale dal 1979 in avanti dal momento che il valore aggiunto dello sciismo rivoluzionario è stato chiaramente esportato nei movimenti palestinesi creando, su tali basi ideologiche, Hezbollah.
Credo sia necessario riflettere su quale ruolo l’Occidente e l’Italia siano capaci di assumere nella garanzia di stabilizzazione e di democratizzazione di una regione nella quale egoismi autocratici e poteri di dominio, ammantati da un radicalismo religioso alquanto fazioso, rischiano di far cadere il Mediterraneo in una nuova era di insicurezza sulla pace mondiale più del conflitto iracheno. Credo sia necessario considerare che la politica estera di un Paese denota l’unità di intenti della nazione all’esterno. Un’unità che si manifesta a prescindere da posizioni politiche di parte e che si dimostri come reale sintesi di una volontà comune di presentarsi come attore da palcoscenico nel mondo e non come ennesima comparsa delle cui recite poco importa all’Iran di Ahmadinejad quanto ad Hamas, agli stessi Hezbollah e allo stesso Israele. Ed è su questo che forse bisognerebbe discutere, ricercando proposte vere e determinando azioni tali da restituire dignità ad uno Stato libanese sotto attacco da anni e a popolazioni marginali che guardano all’Occidente come ad un’entità politica ostaggio di una rara forma di sindrome di Pilato.