La corsa al seggio per vanità, lobbismo e per un’idea in lenta agonia
Tra dichiarazioni dell’ultima ora, candidature da palinsesto politico, ormai simile a quello dei media dai quali politici e partiti hanno ben appreso modi e termini di espressione, la corsa al Parlamento europeo sembra aprirsi sotto auspici che farebbero arrossire, per non dire altro, figure di pregio e carisma come uno Schuman, un Monnet, uno Spaak, un Delors o come lo stesso De Gaulle, di certo non un Macron, nonostante la sua versione “nazionalista” che chiuse all’atlantismo nella speranza di fare dell’Europa un organismo più vivo e protagonista, magari ritagliando per differenza all’Exagone un ruolo guida alternativo alla diplomazia a stelle e strisce, ospitando all’Eliseo allora il suo omologo tedesco.
Ma non siamo all’Europa di ieri, purtroppo. E non siamo all’Europa pensata per l’oggi a Maastricht, a Amsterdam, a Lisbona o in un dovunque ipotetico. Siamo solo, purtroppo, all’Europa del populismo dei luoghi comuni, della tecnocrazia e del potentato lobbistico che ha trasformato ogni corsa in una gara al potere del piccolo e del grande ma, meglio, per il piccolo, se in funzione di quest’ultimo: il grande.
Un’Europa che di politico ha molto poco e rischia di avere ancora meno con una Commissione che ne regge le sorti ormai sempre più con fare autocratico, senza aver ricevuto un mandato imperativo, andando oltre il rispetto di ciò che resta, per alcuni illusi, della dimensione intergovernativa e del suffragio popolare di istituzioni dove la linea di confine tra l’interesse dei cittadini e quelli dei partiti e dei potentati economici che non espongono bandiere, è ormai così netta che solo un cieco, per sua fortuna forse, non riuscirebbe a vedere.
In questo senso, le prossime elezioni europee dovrebbero caratterizzarsi - nel desiderio di chi ancora vi crede, sempre meno, oltre gli scettici, sempre di più - per un cambio di passo e per una migliore qualità della rappresentanza nel tentativo di archiviare una delle peggiori leadership eurounioniste espresse negli ultimi decenni, di riqualificare il parterre degli eurodeputati in qualità e contenuti, di rilanciare, sotto una reinterpretazione più onesta, lo spirito dei trattati e il senso di una vera, condivisa e cooperativa, quindi, unione continentale dei popoli, prim'ancora che degli Stati. Ma non sarà così.
Ciò che si approssimerà dopo l'election day europeo, sarà una delle Europe peggiori dopo quella che portò alla Grande Guerra prima, alla Seconda dopo e al disastro von der Leyen, per avvicinarci ai giorni nostri; colei dei contratti secretati e della deriva bellicista. Sarà un’Europa sintesi diabolica tra tecnocrazia e nuovo e pericoloso populismo partitocratico.
Un’Europa che sarà teatro di vecchie e ancora non stinte comparse e di nuovi apprendisti, che rappresenteranno lo scadimento di una politica ormai sempre più da mercato rionale travestita con blasoni senza dignità, dal momento che le contrattazioni ai banchi mercatali sembrano essere più corrette di quelle delle segreterie di partito (e l'Italia sembrerebbe pronta a fare la sua parte, presentandosi come un interessante laboratorio che, forse, in un domani non così lontano, potrà spiegare in un attento e accurato studio dei fatti, come e perché l’Europa raggiunse in questi anni il suo minimo storico di credibilità).
Sarà, insomma, un’Europa incapace di riportare la Russia su un terreno di dialogo sottraendola al gioco statunitense di annichilirne le capacità economiche puntando su un regime change che non ci sarà o, se ci dovesse essere, di certo non nei termini pensati oltremare. Sarà un’Europa incapace di trasformare la Nato in una Alleanza eurocentrica, credibile e inclusiva e non provocatoria. Sarà un’Europa che non avrà alcuna credibilità per tornare a essere protagonista nel processo di pace in Medio Oriente e nel Mediterraneo, lasciando l’iniziativa agli Stati Uniti e non solo a essi, come sempre, quasi a dover accettare che il Mediterraneo non abbia più nulla di nostrum.
Sarà un’Europa che se non con molte difficoltà, o con nessuna possibilità a condizioni politiche ed economiche date dopo il 9 giugno prossimo, riuscirà forse a riconquistare piccoli spazi di competitività economica abbandonati dolosamente per anni alle scorribande cinesi e alla trascurata, se non poco dignitosamente vilipesa, capacità dei Brics o di chi per loro di obbligare l’economia e la crescita europea a fare i conti con nuove proprietà e nuovi assetti finanziari decisi in un altrove di certo non prossimo alle capitali europee.
Sarà un’Europa incapace di ritagliarsi un ruolo alternativo all'imperio, si imperio, dell'anglosfera in termini economici e geopolitici conquistando una propria sovranità da questa e dall’Oriente se non anche un’indipendenza tecnologica. Sarà una Europa che non segnerà alcun cambiamento, ma che assisterà al solo e solito riposizionarsi di persone, parole, slogan e scelte già viste, vissute e patite.
Sarà quell’Europa che, proprio coloro che vengono celebrati solo per finzione ed etichetta dal perbenismo eurounionista odierno o dagli stessi detrattori di facciata, non avrebbero mai voluto vedere.