Paul L. Atwood. War and Empire: The American Way of Life. Pluto Press. New York. Prima edizione 2010. Ultima edizione in formato Kindle, 2015 p.270.
Perché recensire oggi un volume la cui prima edizione risale al 2010? Per un solo motivo, o per molte ragioni. Un motivo? L’attualità senza soste di una politica all around che gli Stati Uniti continuano a perseguire in uno sforzo ancora poco attenuato di una forward strategy senza eguali nella storia imperiale. Le tante ragioni? La capacità di analisi e di contrasto al politically correct che Paul Atwood dimostra nel volume nel quale, politicamente, tenta di processare le scelte americane in virtù di un modello di neoimpero dalle molte sfaccettature ma, anche, dai molti limiti. E non è un caso che un libro del genere sia ancora ritenuto un best-seller tra le ultime pubblicazioni angloamericane in materia di relazioni internazionali e tradotto anche in farsi e in mandarino.
Paul Atwood si inerpica con molta maestria verso la storia americana, quasi a voler allargare la schiera di critici del modello americano di una politica che sfugge al controllo della popolazione per essere, sin dalle prime guerre condotte dopo l’indipendenza e ad oggi, il mentore di generazioni di americani che leggono la politica estera dell’Unione senza credere di esserne poi destinatari degli effetti. In questo sembra che l’autore non si voglia discostare né dal tentativo ormai decennale di Oliver Stone di riscrivere la storia americana in tutte le sue possibilità cinematografiche e documentariste, quanto da quelli di illustri saggisti che hanno tentato di ridefinire e reinterpretare una American Way of Life che dopo il Viet Nam è diventata ancor più apertamente dinamica in ogni scenario di crisi del mondo.
Paul Atwood si aggiunge, seppur con considerazioni diverse, al criticismo di Noam Chomsky o alle riserve sulla power politics made in Usa contenute nei due illuminanti saggi di Andrew J. Bacevich, The New American Militarism. How Americans are Seduced by War (2005) piuttosto che The Limits of Power. The end of American Exceptionalism (2008) o, se si vuole, guardare alle considerazioni di un Josef Joffe contenute nel suo Überpower: The Imperial Temptation of America (2006), che a modo suo modo giustifica la tentazione imperiale degli Stati Uniti chiedendosi, però, perché molti nel mondo non gradiscono poi le “attenzioni” americane e ovviamente, riducendo al ruolo di insignificante partner militare l’Unione europea. Oppure si potrebbe avvicinare Paul Atwood a Robert Kagan nel suo Of Paradise and Power (2003) e altre opere nel quale quest’ultimo autore sembra impadronirsi di un Tucidide del nuovo secolo per il quale la natura del potere sembra adagiarsi su una rivisitazione del ruolo degli Stati Uniti e dell’Europa, quasi a voler sintetizzare nei loro valori Sparta ed Atene. Ma Atwood,però, a ben …leggere… ha ben altre intenzioni.
Nel suo saggio si risolvono brillantemente gli interrogativi di una politica estera concepita, organizzata e svolta da élites che non sempre coinvolgono i cittadini se non nel momento in cui il consenso sembra essere necessario per giustificare scelte già fatte. Il volume di Atwood a volte sembra essere la premessa alla storia politica degli Stati Uniti riscritta cinematograficamente, come detto, da Oliver Stone partendo dal presupposto che, proprio gli americani, ben poco sanno delle dinamiche storiche che hanno caratterizzato le scelte politiche delle loro élites sin dalla Prima Guerra Mondiale.
Che sia impero o che la politica imperiale non sia cambiata di molto, Atwood ritiene che ogni leader americano ha scelto dove e come ingaggiare le proprie battaglie per aumentare la propria influenza e il proprio potere, con poca attenzione per i soldati americani uccisi o per le cosiddette vittime collaterali.
Ma c’è un altro motivo che attribuisce attualità al libro di Atwood. E’ quello di essere passato quasi inosservato in Occidente, meno in altre regioni del mondo. E le ragioni non sono poche dal momento che la visione occidentale sovrappone una anglosfera politica con un eurocentrismo made in Usa. L’opera è di per sé interessante, con un percorso storico ben strutturato dove l’indice si pone non solo come linea del tempo, ma come evoluzione progressiva delle scelte delle leadership statunitensi man mano che la sfera di influenza e la voglia di protagonismo della nuova nazione si affaccia alla finestra della storia. Il volume, che arricchisce la pubblicistica d’oltreoceano, ha il coraggio di mettere in discussione, come già fatto da Andrew J. Bacevich, il modello americano.
L’introduzione è una sorta di epilogo preventivo. American ideology versus American Realities rappresenta la chiave di lettura del volume dal momento che l’idea di America si pone e antepone come un’ideologia surrogata da valori universali ritenuti condivisibili, ma non certamente così poi dimostrati dalla realtà. Le esperienze di guerra americane, le scelte di come combattere e delle armi da usare nel distruggere avversari che non hanno mai portato attacchi diretti su quella che oggi viene definita homeland sembrano, in un certo senso, le cartine di tornasole di una volontà di realizzare programmi diversi seppur connessi di dominio politico ed economico in una visione del mondo dove gli Stati Uniti se non eredi si percepiscono, quanto meno, come degli emuli dell’impero britannico.
Fermo nella sua idea che ogni guerra sia fine e risultato di una scelta di opportunità politica delle leadership, Atwood non risparmia nessuno. Dal secondo Roosevelt alla Albright, l’A. somma alla storia gli elementi ideologici che nel messianismo puritano quanto nell’Eccezionalismo americano, professato in nome di un Destino Manifesto, diventano delle costanti non solo di metodo ma, appunto, ideologiche.
In quest’ottica ogni evento, ogni guerra ha un suo interesse recondito, così come la stessa liberazione della schiavitù non è il motivo dominante di un agire filantropico, ma una conseguenza di una scelta politica orientata a industrializzare il Nord in nome di uno sviluppo economico moderno sacrificando ad esso l’economia agraria del Sud e ricercando uomini liberi di lavorare, piuttosto che liberi in termini pienamente civili. Se la lotta allo schiavismo diventa finzione e funzione politica, lo stesso approccio si può ritrovare nei capitoli che formano questo interessantissimo saggio che vorrebbe assumere su di sé l’onere di riscrivere una storia mai raccontata. Ma leggere Atwood significa, anche, riconsiderare il ruolo degli Stati Uniti in un mondo in cui la complessità sembra non essere un terreno facile per politiche unilateraliste. Un ruolo che richiede maggior comprensione dell’altro e che sembra portare nel suo grembo il rischio di un pericoloso isolamento. Sarà per questo che sia in Iran che in Cina vi è stato un deciso interesse verso questo saggio.
Giuseppe Romeo