
E, così, nonostante la fine della crisi afghana, alla ricerca di un Bin Laden che non si trova più, il confronto tradizionale tra soggetti politici omogenei asimmetrici, nella loro fisionomia, uno Stato contro una non ben definita Autorità Nazionale, ci riporta nella regione mediterranea quali spettatori privilegiati di una scenografia che nulla di nuovo offre agli occhi dello spettatore occidentale. Anzi, aumenta la sensibilità di quest’ultimo di trovarsi fronte ad un tunnel senza uscita. Un tunnel sempre più lungo, la cui fioca luce degli accordi di ieri si smorza nei vicoli senza tregua di Nablus, Hebron, Betlemme o Gerusalemme. Non è un problema di Sharon o di Arafat se il vuoto di potere creatosi con la riduzione delle capacità di azione politica delle ex-grandi potenze non è stato colmato da alternative credibili di leadership regionale.
Gli Stati Uniti corrono dietro un Bin Laden in una corsa ancora senza traguardo e la Russia, in cerca di rimodulare il proprio sistema economico, si rende conto che competere nell’offerta di greggio, collocando sul mercato le proprie riserve, può essere la ricetta immediata per una rinascita politica di fronte ad un concorrente scomodo che si approssima sui mercati mondiali quali la Cina post-maoista. E così, mentre l’Occidente sperava che la guerra afghana ridefinisse in chiave favorevole gli assetti regionali, ci si trova di fronte ad una Russia che rientrando dalla finestra si affaccia sulla Casa Bianca e si ridisegna un proprio ruolo, e ad un mondo arabo in crisi di identità economica, prim’ancora che politica, di fronte ad una forza degli esclusi che si ritaglia propri spazi di iniziativa al punto da sconvolgere l’equilibrio delle piazze delle democrazie europee.
Dopo la fine della Guerra del Golfo, passando per Qandahàr, la rottura fra modello occidentale e mondo levantino si trasferisce in Palestina. La difficoltà a garantire un futuro alla nazione palestinese quale identità di Stato, e l’occupazione dei Territori, di fronte alla pur legittima domanda di sicurezza per il pari diritto di esistenza di Israele, influenza i sogni tranquilli e opulenti di un mondo occidentale consapevole della diversità degli attori e della distanza culturale che li separa dal mondo ulteriore.
Le difficoltà di Arafat a trasformare l’Autorità Nazionale Palestinese in un governo vero e proprio quanto la debolezza dimostrata nei confronti di Israele nell’incapacità di dominare l’estremismo più efferato, rappresentano i risultati del non sapere come e quando definire la questione di un confronto che è sempre di più caratterizzato dalla trasposizione politica della marginalità delle classi più povere del mondo palestinese in particolare ed arabo in generale.
Il confronto fra Israele e Arafat è il confronto fra un modello economicamente evoluto e un mondo in cui le possibilità di accesso sono sempre più rare, fra chi ha la possibilità di darsi una qualità della vita decorosa e chi cerca, giorno dopo giorno, nelle strade di Gaza, o di Hebron o Nablus, una ragione per comprendere l’impossibilità di vivere in un proprio Stato e accedere alle opportunità di crescita che il modello occidentale offre ai più bravi e di cui Arafat ne ha troppo personalmente, accettato gli effetti.
In tutto questo, vi è una grande assente: l’Unione europea. L’atteggiamento di Sharon verso Solana non è trascurabile né privo di segnali politici. L’Unione europea, non cresciuta come identità politica credibile nell’area, rappresenta l’alternativa mancata. Il luogo di dialogo più autorevole se si ci trovasse di fronte ad una volontà dei partner di modellare la propria azione nella regione in chiave unitaria. Per questo, Sharon non esclude l’Unione e dal dialogo e dalle trattative. L’Unione europea si era già esclusa da sola.