Il 75.mo compleanno della Nato avrebbe dovuto celebrarsi conquistando la pace, aprendo il dialogo verso un’idea di sicurezza e difesa continentale soprattutto dagli egoismi economici e dalle ambizioni di potenza altrui. Credere che un impero non abbia un prezzo da pagare alla storia è, di fatto, una fantasia, una sorta di superficiale illusione che nasconde, al contrario, all’interno di ogni sforzo volto a sostenere politiche di egemonia seppur condite con la salsa della democrazia. Seppur in momenti diversi, Charles De Montesquieu aveva, a tal proposito, le idee molto chiare: un impero fondato sulla guerra, come in fondo sembra essere anche quello americano - seppur non dichiaratosi come tale - deve conservare se stesso con la guerra.
Anzi, guardando come e in che termini si è chiuso il vertice atlantico di Washington, richiamare il solito Clausewitz non è poi così banale o scontato soprattutto se ricordiamo a noi stessi, europei dell’ultima ora, che «Folle è colui il cui fine politico supera il potere strategico; illuso chi non fa corrispondere la sua strategia alla sua politica; ignorante chi non vede la correlazione fra i due termini; pazzo chi consente di effettuare sforzi superiori a quelli ragionevolmente commisurati con i suoi fini».
Una frase che se contestualizzata tra minacce alla Cina, insostenibili quanto improvvide dettate da una diplomazia senza arte, e il garantire “incondizionato” appoggio all’Ucraina, al netto delle ragioni di diritto di Kiev che però fanno i conti, in senso concreto circa la possibile adesione alla Nato, con l’impossibilità per il regime di Zelensky di poter soddisfare i criteri di democraticità per entrare tra gli eletti atlantici, allora si dovrebbe dare un senso anche all’assunto aristotelico per il quale «nessuno fa la guerra per la guerra, ma per la pace che segue la guerra». Tutto questo, insomma avrebbe anche un senso a condizione che ogni singolo leader, e lo stesso segretario generale della Nato (di cui dubito) abbiano chiare quali potrebbero essere le conseguenze nel rinnovare forniture di sistemi d’arma all’Ucraina o, in caso di coinvolgimento diretto del confronto su un ipotetico campo di battaglia, sui popoli d’Europa e non solo.
Al Vertice di Washington del 9 – 11 luglio proprio la parola “pace” è stata la grande assente. Assenza giustificata forse dal missile attribuito alla Russia che nel colpire l’ospedale pediatrico di Kiev condanna, giustamente, Mosca se fosse responsabile, ma che sembra assolvere, in barba a ogni equità giuridica e di valore Israele per i bambini palestinesi morti nelle diverse crisi senza fine che si ripetono ogni giorno nei territori nuovamente occupati dalle forze di Tel Aviv. Insomma, nella celebrazione di un limitato orizzonte atlantico dove si legittima un doppio standard tra chi può uccidere e chi no è andato in onda un doppio standard, al quale ricorrono le cosiddette democrazie per giustificare i crimini dell’amico di oggi e condannare l’avversario di sempre.
In questo tavolo verde, insanguinato dagli orrori sul fronte ucraino come in terra di Palestina, dovremmo chiederci quale tipo di pace potrebbe giungere alla resa dei conti dei possibili negoziati se si rincorrono proclami e dichiarazioni di circostanza, senza pesare l’uso delle parole e senza rivolgersi a una quanto meno proattiva precauzione nell’attribuire responsabilità, convinti che un’unica narrazione possa capovolgere non solo i termini di verità, ma anche convincere le coscienze.
Sottolineare, nella stessa Dichiarazione finale, il carattere pacifico dell’Alleanza è a dir poco singolare quando l’argomento principe del summit è stato quello di definire nuovi aiuti militari a sostegno di un conflitto e non dare corso a un percorso negoziale sostenuto dalla favorevole coincidenza, per accreditare le tesi atlantiche, di un quanto meno da chiarire attacco russo a un ospedale pediatrico ritenendo scontata la lettura dei fatti al di là dei ragionevoli dubbi che ogni operazione bellica, di fronte a simili fatti, richiederebbe sin dalle prime guerre combattute dall’uomo. Ricordando un mai sepolto «Rapporto Bryce» della Grande Guerra (dove la propaganda inglese, durante l’occupazione del Belgio, costruì crimini attribuiti ai soldati tedeschi non dimostrati nei fatti o, in ogni caso, non commessi come descritti) o l’Operazione «Mincemeat» (uno dei tanti esempi di false flag messi in campo per ottenere un vantaggio militare; in questo caso far giungere informazioni errate ai tedeschi circa il vero luogo scelto dagli alleati per lo sbarco nel continente europeo) o altre, dove la dissimulazione e l’inganno rappresentano aspetti dominanti della condotta di operazioni sul campo di battaglia.
Vertice nonostante, insomma, non è sembrato che, a conti e memorie date, a nessuno dei partecipanti, meno che mai al solerte segretario generale della Nato Stoltenberg, che le vie della cooperazione, del dialogo e della costruzione di un fronte comune di sicurezza e difesa e di prosperità erano stata già lanciate con la The European Neighbourhood Policy (ENP) verso Sud dall’Unione europea mentre la Nato rispondeva inaugurando il proprio partenariato a Sud e verso l’Asia con la Istanbul Cooperation Initiative (ICI) che avrebbe dovuto seguire la Partnership for Peace (PfP). Quest’ultima, alla fine, vero cavallo di Troia per far entrare nello spazio atlantico i Paesi dell’Est Europa aggirando ogni promessa fatta alla Federazione russa nel maggio 1997 a Parigi nell’illusione, interessata, di coinvolgerla all’interno di un quadro di sicurezza continentale aperto anche a Mosca. Due politiche abbandonate dai nipoti di una potenza che non avendo altri argomenti per disarcionare competitor nell’altrove geopolitico, dopo aver perso aderenza in Medio Oriente e in Asia Centrale, ritorna a riproporre una nuova versione di Guerra Fredda, questa volta più pericolosa perché non blindata in termini di negoziati e trattati di non proliferazione e di reciproco avviso, costruita sull’emotività di leadership a scarso valore aggiunto.
Il Vertice della Nato si è svolto, inoltre, in un momento nel quale la capacità di intervento atlantica rischia di dover fare i conti non sono con la tenuta interna delle relazioni tra partner - siamo sicuri della piena e indiscutibile automaticità dell’art.5 in caso di attacco a Paesi o installazioni Nato da parte della Russia? - ma anche con la situazione internazionale, oltre che con il rischio dell’incognita Trump il cui ennesimo attentato, oltre a minare la credibilità delle forze di sicurezza e dell’intelligence a stelle e strisce, pone seri dubbi sulla credibilità politica della presidenza Biden nel mondo e sulla reale garanzia di vita democratica all’interno degli Stati Uniti. Tutto questo, mentre la Russia, guerra nonostante, non solo vede apprezzarsi il rublo che non sembra soffrire delle conseguenze del conflitto, ma continua a trovare nuovi partner commerciali e il mercato del petrolio e del gas ridefinisce le proprie transazioni anche in altre valute che non siano necessariamente il dollaro USA permettendo, per le economie non occidentali di aumentare, diversificando, la propria disponibilità di valute straniere.
Insomma, il Vertice Nato, al di là della ricorrenza e delle intenzioni di celebrare la longevità di un’Alleanza, sembra aver voluto autocelebrare un mito che, seppur fondato su un’utilità strategica del passato, non sembra riuscire a dotarsi di realismo e pragmatismo diventando, al contrario, e paradossalmente molto più del passato, una sorta di appendice strategica delle volontà di Washington. Volontà pericolose perché non meglio definite e, se tali fossero, ammettendo l’interesse a eliminare Cina e Federazione russa da un quadro cooperativo, ciò sarebbe ancora una volta estremamente rischioso, al di là delle minacce provenienti da Mosca.
Con il trattato di non proliferazione non riconosciuto più come vincolante e la sospensione del trattato e di ogni negoziato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), il poker al rialzo è assolutamente libero da ostacoli giuridici ma, questo, sembra non preoccupare proprio coloro che alla fine farebbero parte del principale teatro di scontro come se sin dagli anni Ottanta, con la crisi dei cosiddetti “euromissili”, ciò non fosse abbastanza chiaro: i Paesi europei e, in particolar modo, quelli dell’Europa centrale, l’Italia e il Regno Unito. In questo senso, diventa singolare credere che le maggiori, e migliori se tali fossero, diplomazie europee, a crisi data e al di là di ogni ragionevole considerazione su chi ha responsabilità da farsi perdonare o meno, non siano in grado di ricorrere a una necessaria capacità di astrazione abbandonandosi in dichiarazioni che dimostrano la contagiosità di una sorta di demenza geopolitica disarmante proveniente da oltreoceano.
Tutto questo, quasi come se, in caso di un possibile conflitto allargato, si fosse convinti di vincerlo magari distruggendo una volta per tutte la Federazione russa al di là di ogni costo da pagare negli anni futuri mentre, ovviamente, quel mondo non occidentale, cui volgiamo lo sguardo convinti di disporre di qualche appeal a nostro favore, non aspetta altro che vedere l’Europa, la vecchia padrona di ieri soccombere e uscire dalla storia per indotta, da se stessa, senescenza politica. In fondo, anche lo stesso Biden non sembra più adeguato ad accompagnare i nipotini atlantici per mano e, ovviamente, ciò crea non poco imbarazzo in una famiglia che al di là delle intenzioni dimostra al suo interno molte non dichiarate divisioni e possibili piani B da ognuna delle parti in gioco, Stati Uniti compresi, nel caso in cui quanto sperato non dovesse verificarsi, come non si verificherà, per ovvie ragioni strategiche e di sopravvivenza.
Uno scenario non rassicurante, nonostante le promesse spese e sparse per Kiev negli anni e ribadite a Washington “incondizionatamente” dimostrando, con i nuovi pacchetti di aiuti militari, la possibile qualificazione giuridica di belligerante per l’Alleanza e per ogni singolo Stato membro. E, questo, perché nell’insistere sulla sconfitta a tutto campo della Russia dimentichiamo che la Russia di Putin, almeno quella che si ispira a un senso di grandezza e di ricordo dei fasti imperiali di Pietro il Grande, vive un ethos della propria storia e della propria esperienza fatta di relazioni con popoli diversi e della cui diversità ne fa un paradigma esistenziale. Un esempio che va ben oltre le stesse prove del tempo, dove l’idea di una Rus, madre di popoli, è sopravvissuta alla stessa normalizzazione del periodo comunista rilanciando un’idea di comunità che forse andrebbe meglio, se non più attentamente, valutata.
Ad oggi, in verità, aiuti militari nonostante, l’Ucraina è stata trasformata in una discarica di sistemi d’arma Nato desueti (si pensi ai semoventi M109L non più in linea o alle versioni cannibalizzate dei Leopard sino alla novità di dotare di F16 le forze aere ucraine, senza considerare che tale velivolo è in linea di volo, in varie versioni, sin dal 1976). Questo, per fare spazio, a risorse date e al di là delle promesse fatte di maggior impegno e di ben più consistenti stanziamenti, al riammodernamento dei sistemi d’arma della Nato senza tenere conto che, proprio la crisi russo-ucraina, e l’incapacità a prevenirla, e poi di gestirla in un quadro di sicurezza continentale reciproca e credibile ha di fatto rimesso in discussione soprattutto l’impianto concettuale di impiego delle forze e le basi della sua esistenza.
La Nato si vorrebbe presentare come strumento di pace e stabilità, ma la sola celebrata deterrenza ha dimostrato, al contrario tutti i suoi limiti nel non essere in grado di offrire condizioni di negoziato che tengano conto della necessità di mantenere condizioni di equilibrio strategico fondamentali nel continente europeo almeno sino alla soluzione del conflitto tra Russia e Ucraina, rinviando l’adesione di ogni ulteriore nuovo membro a tempi migliori e più favorevoli. Di fronte a simili demenze geopolitiche, che sembrano non valutare le conseguenze non solo esterne ma interne, in caso di possibile conflitto, sarebbe interessante vedere come e in che misura l’art.5 dimostrerebbe tutta la sua forza nei confronti di alcuni Stati membri, se fosse, a partire dalla prime ore di una crisi aperta tra Nato e Federazione russa.
D’altronde, la stessa assenza di una strategia di ritenzione del rischio, cioè, l’assenza di una valutazione dei rischi nella quale accettando il potenziale verificarsi si pongono soluzioni e modalità per limitare i danni, diventa sintomatica di una convinzione assoluta di sostenere un possibile confronto militare con garanzia di successo. Una strategia, quella della ritenzione del rischio, che non si intravede all’orizzonte, dal momento che ogni leader europeo sembra cadere dalle nuvole d’oltreatlantico ritenendo inutile non solo predisporre una politica di emergenza, prima del baratro, ma rinunciare a pensare a un negoziato quale unica possibile via per mitigare una spiralizzazione deliberata del confronto a risultati che non offriranno pay off utili se non alla Russia neanche alla Nato, nonostante i termini posti a condizione per aprire un tavolo di trattativa: il ritiro totale delle forze della federazione russa dalle province del Donbass, Crimea ecc. Questo, dal momento che non solo il negoziato si farà partendo dalla situazione delle forze sul terreno, ma di certo, historia “magistra” docet, non vi saranno ridefinizioni dello status quo ante come ancora si ritiene possibile (per non andare lontano basti ricordare il nulla di fatto coreano le condizioni di negoziato partendo dalla fine della Guerra dei Sei Giorni o del Ramadam-Kippur per quanto riguarda Israele, i Paesi arabi e l’Olp).
Insomma, ciò che il mondo ha visto è stato un Vertice per un’Alleanza consapevolmente, ma non lo si dice, post-eroica, dove l’abbandonarsi per l’amministrazione Biden a un nuovo millenarismo apologetico neo-neocon - il cui prezzo lo ha pagato il mondo interno con guerre nel dovunque altrove - rischia di trascinare l'Occidente in uno scontro con quell’Oriente che oggi è sempre più sicuro e convinto della difficoltà degli Stati Uniti di porsi al vertice dei destini del mondo quale faro di una Repubblica (impero) universale. D’altra parte, per quanto si possano ritenere strumentali le dichiarazioni provenienti da Mosca e dintorni, come si può confutare l’evidenza che il favorire una progressiva escalation tra Russia e Nato, alimentata da continue e reiterate misure provocatorie - come il ridispiegamento di sistemi missilistici di attacco nel cuore dell’Europa – non possa trascinare l’Europa da una nuova Guerra Fredda a una nuova e caldissima guerra finale? O, ancora, pur spostando la responsabilità di Mosca ci si chiede, al netto delle scelte politiche fatte sino ad oggi, come si può credere che la Nato, a conti e dichiarazioni date, sia percepibile come un’Alleanza pacifica e non offensiva come un attento analista del Pentagono ha ben sottolineato a ridosso del Vertice?
Michael Maloof, già analista delle politiche di sicurezza presso l'Ufficio del Segretario alla Difesa, con trent’anni di attività, è stato molto chiaro nell’affermare che «La NATO è chiaramente diventata ora un’alleanza offensiva. Penso che questo stia preoccupando sempre più persone e renda il mondo molto più pericoloso». In una situazione del genere, «anche una minima escalation potrebbe rapidamente andare fuori controllo e travolgere il pianeta in un conflitto mondiale». A ciò, Maloof aggiunge che «il problema è che la NATO è stata creata per essere un’organizzazione “difensiva” contro l'Unione Sovietica. L’Unione Sovietica non c’è più, così come il Patto di Varsavia. Ma la NATO non solo è rimasta, ma si è spinta sino a ridosso del confine russo». E, quindi, decidendo di schierare i missili Tomahawk, chiaramente sistemi d’arma offensivi, e altri missili ipersonici in Germania se non in Ucraina se fosse stato e se sarà possibile, si è riaperta una pericolosa partita senza disporre, alle condizioni di oggi, di opportune camere di compensazione diplomatica per gestire eventuali rischi futuri.
Probabilmente, al netto della fragilità della posizione americana nel mondo e della necessità di affermare una propria leadership dimostrando di essere portatori di una credibilità strategica in termini sia militari che economici, nonostante il ritiro dall’Afghanistan - e la scommessa persa con l’Ucraina sin dal 2014 ma che resta ancora oggi l’unica ancora di salvezza per poter giocare a essere, gli Stati Uniti, la potenza decisiva e necessaria per la sicurezza e difesa nel mondo - forse credere che una forever war possa mantenere in piedi il mito dell’American First andrebbe rideterminato. Ciò nell’interesse degli stessi Stati Uniti e poi, ovviamente, dei partner, evitando che si possa consolidare nel mondo il convincimento che per gli Stati Uniti, e i loro alleati, le guerre tradizionalmente rappresentino per loro un "saggio investimento" perché, come nel passato, non si svolgeranno nell’homeland americana e non si preoccuperanno, come non si sono preoccupati, dei costi altrui.
Ovvero, ancora, che accettando l’idea di una forever war così definita da John McCain, già senatore statunitense, si accetti anche il fatto che gli Stati Uniti possano liberamente dettare le regole del gioco pur di mantenere la loro egemonia globale, barattando le vite dei cittadini di altri Paesi - europei compresi - pur di indebolire i propri concorrenti sulla scena mondiale: Russia, Cina e …Unione europea. Un assunto che, a ben guardare, dovrebbe far riflettere gli stessi partner della Nato considerato che una guerra nucleare si risolverebbe in un Tris senza fine; cioè, con la distruzione di ogni certezza per le opulente e meno inclini ai sacrifici società d’Occidente.
D’altronde, a essere onesti soprattutto con noi stessi, e al netto delle ragioni sottese all’invasione russa dell’Ucraina quanto alle ragioni di Kiev e qualunque siano i termini del confronto, la via negoziale sembra ancora una volta allontanarsi. Le dichiarazioni di una possibile ritorsione da parte russa, nel caso di attacchi condotti sul territorio russo con sistemi d’arma forniti da Paesi Nato per molti dei leader europei sembra essere una sorta di bluff di circostanza mentre, senza tener conto di una necessaria precauzione, l’aver minacciato la Cina di possibili ripercussioni, se continua il sostegno a Mosca in termini soprattutto economici e di mercato, viene vista come una dimostrazione di forza e credibilità.
Eppure, per ragionevole tutela, se il Cremlino avverte che «Le capitali europee potrebbero diventare degli obiettivi», bisognerebbe ricordare che ogni capitale europea come le più importanti città americane sono già obiettivi, perché sono da sempre “targetizzate” e per ognuna vi è un sistema di lancio dedicato, pur essendo valido il contrario. E, a buona memoria dei pianificatori e analisti atlantici, questo rientra nella strategia countervalue in caso di escalation. Cioè colpire obiettivi ad alto valore sociale piuttosto che economico o militare per motivi facilmente comprensibili.
Ma si tratterebbe, perdurando il conflitto, di un'operazione da valutare secondo l'andamento dell'economia delle operazioni dal momento che, per abbattere la capacità operativa dell'avversario, si potrebbe ricorrere a una strategia counterforce; ovvero, colpire siti/sistemi d'arma omologhi dell'avversario in tempi rapidi per diminuirne significativamente la capacità di risposta. Probabilmente la Nato è convinta che la Russia possa solo bluffare. Eppure, ci si dimentica troppo facilmente che la Russia dispone non solo di più testate nucleari della Nato (ovvero USA+UK+FR) ma ha sistemi di lancio mobili e non dislocati solo in silos, il che garantisce Mosca nel poter eludere eventuali ritorsioni counterforce in caso di risposta USA ad un attacco russo.
Vi è poi la componente SLBN da non sottovalutare per qualità dei sottomarini e pericolosità dei sistemi d’arma nucleari ivi collocati. La Russia, inoltre, dispone di ampi spazi disabitati. Un retroterra strategico che permette un miglior assorbimento di un attacco nucleare e di poter disporre di tempi utili per rispondere in termini counterforce. Una condizione non trascurabile di cui l’Occidente non può avvalersi visto che la densità della popolazione, come la concentrazione di centri abitati e la prossimità di basi e assetti industriali alle grandi realtà urbane, è molto alta se non, in certi casi, senza soluzione di continuità. Alzare la posta in un tavolo di possibile poker nucleare determinerebbe, in altre parole, un inevitabile overkill se non per gli Stati Uniti, di sicuro per l'Occidente europeo.
In questo vertice dai toni forti e dalle minacce a un regime come quello russo, sembra che le intimidazioni siano, alla fine, diventate i veri punti di forza a proprio favore tanto quanto permesso dalle ambiguità delle politiche occidentali, europee e americane, che credono che prima o poi si possa disarcionare una leadership avversaria senza fare i conti con il successore o con lo stesso popolo russo. Di fronte a una simile consapevolezze, gli abbracci non sembrano finire solo ribadendo la volontà di giungere a una resa dei conti finale con la Russia. La Dichiarazione conclusiva non ha mancato, infatti, di indirizzare alla Cina un avvertimento diffidandola dal sostenere lo sforzo russo. Una dichiarazione resa contro la sovrana espressione di una scelta politica da parte di uno Stato indipendente che tende, quindi e ancora di più, a isolare l’Occidente a tutto vantaggio degli stessi avversari politici che, al contrario, l’Occidente euroatlantico avrebbe dovuto combattere su piani diversi, attraverso la presentazione di una democrazia capace di dialogare senza scendere a compromessi con un’autocrate piuttosto che un altro pur di soddisfare politiche post-egemoniche ormai non più difendibili come fatto nel passato.
Insomma, è sin troppo evidente a degli attenti osservatori che dopo avere per anni tentato in ogni modo di provocare una reazione russa utilizzando l’Ucraina come grimaldello, nella convinzione di smantellare gli assetti politici russi per aprire le porta ai capitali occidentali, al Vertice di Washington sembra sia stato chiaro che la Federazione russa è considerata non “un” ma “il” nemico dalla Nato aprendo le porte a una sorta di guerra surrogata attraverso il sacrificio pre-pianificato dell’Ucraina. Una guerra subdola, certo non dichiarata ma non meno pericolosa se si dovessero manifestare intenzioni dirette a mettere in discussione la sopravvivenza dei quell’idea di Fatherland che fa dell’esperienza storica russa un modello politico-organizzativo millenario a più nazionalità e culture rispetto a quello offerto dagli Stati Uniti qualche secolo dopo. Ma non solo.
Ciò su cui Mosca, nostro malgrado, può contare è che il monopolio dell’Occidente sul potere finanziario, economico e militare globale è giunto al capolinea della storia per aver preteso di allungare più delle proprie capacità la sfera di interesse strategico. In fondo, doveva essere chiaro anche durante il Vertice di Washington, se non essere posto a premessa o a consigliare maggior precauzione nelle dichiarazioni finali, che l’ascesa della Cina, la sua cooperazione con nazioni come la Russia e i numerosi membri dei Brics determinano e possono, quindi, condizionare in ogni momento le economie quanto ciò che resta dei vecchi monopoli di cui l’Occidente ha goduto per decenni.
L’ascesa di Cina, Russia, India e altri Paesi prossimi alle economie di Pechino, Mosca e Nuova Delhi ha messo in discussione quella primacy egemonica con cui l’Occidente per secoli ha dettato le regole degli scambi, del potere. Eppure, nonostante ciò, per molti dei competitor, nonostante le improvvide dichiarazioni sulla Cina, gli stessi promotori del non-Western World hanno sempre precisato che l’ordine dei Brics è proposto quale ordine complementare se solo l’Occidente riuscisse a rideterminare i propri parametri di dialogo all’interno delle sue aggregazioni, politiche ed economiche, disancorandosi dall’essere vincolato ai destini di una sola potenza. Una prospettiva, questa, non compresa dai leader atlantici, troppo occupati dal dover compiacere un presidente che dimostra con la sua fatiscente immagine, quanto fatiscente rischia di essere percepita la stessa credibilità di una comunità euroatlantica che si dimostra assertiva solo a parole non potendolo essere con i fatti, rischiando di dover fare i conti con la storia e la sua fine.
Il comunicato finale della NATO, purtroppo, ha dimostrato ciò che non avrebbe dovuto dimostrare proprio per coerenza con l’art.2 del trattato dell’Atlantico del Nord: e cioè, che questa Alleanza non ha intenzione di assumere un ruolo costruttivo, ma non era una novità. Nella crisi russo-ucraina come in Medio Oriente si sono mossi in parecchi nel tentativo di giungere a un accordo, dalla Turchia alla stessa Cina, ma nessuna iniziativa della Nato o della stessa Unione europea si è vista all’orizzonte. Tutti ad aspettare la sconfitta sul campo dell’avversario di sempre o il prevalere dell’amico indiscusso, anche se i costi in termini di vite umane sono sempre più alti e insostenibili.
Il risultato è che nell’altrove geopolitico, il tentativo della Nato (leggasi Stati Uniti) di imporre le sue “regole” o la propria prospettiva non solo in Europa ma anche nell’Indo-Pacifico, viene percepito oggi dal mondo non occidentale (nWW), come una minaccia alla pace, alla stabilità e alla prosperità globale: esattamente tutto il contrario per cui l’Alleanza fu istituita nel 1949 e rivisitata, forse troppo generosamente, nel 1991 durante il Vertice di Roma. Un vertice, quello di Roma, nel quale attribuendogli un ruolo politico oltre che militare sembra oggi, andato ben oltre le regole di indirizzo che ogni Stato potrebbe definire condizionando la propria partecipazione, e i propri contributi.
Le dichiarazioni di un Segretario generale, che sembra accreditarsi al di sopra degli Stati membri quasi come se disponesse di un mandato imperativo che andrebbe ben al di là delle sue funzioni e del suo ruolo non lasciano ben sperare per un miglior dialogo se non credere che la forza del riarmo resti l’unica ragione per restituire all’atlantismo come valore e all’europeismo come prassi un futuro di pace e di cooperazione continentale mettendo al centro, ancora una volta, più che l’interesse dei popoli europei e delle loro sovranità, la mai sopita ambizione di potenza a stelle e strisce.