
In genere farsi ispirare da titoli che sottendono significati a volte ambigui non è certo una dote di eleganza. Non lo è né in un senso ma neanche nello scopo. Tuttavia, se ciò serve a far riflettere su questioni e ambiti non scontati nella loro semplicità, ma che sottendono un chiaro effetto sulle vite di ogni europeo, e di ogni italiano, allora probabilmente ciò si giustifica come un esercizio di onestà intellettuale al netto di ogni possibile contaminazione o convinzione ideologica. A ben guardare, tra crisi continentali che sembrano nate da una nostalgia da Guerra Fredda e la progressiva marginalizzazione economica dell’Occidente opulento -convinto che ancora oggi si creda a un Gruppo dei Sette come se fosse quella oligarchia di un tempo capace di imporre linee guida a un mondo che non finisce alle colonne atlantiche o alla costa a stelle e strisce del Pacifico-, l’Europa, intesa come espressione politica dettata dall’esperienza dell’integrazione, sembra arrotolarsi su se stessa, negarsi se non collassare.
Incapace di prevedere crisi e difficoltà nel medio termine, salvo sorprendersi di se stessa dopo la crisi russo-ucraina, tenta la carta di ritagliarsi uno spazio di autonomia politica se non di autonomia strategica dopo avere per decenni scelto, quasi a riflettere a sua volta su quanto era ed è già chiaro nelle politiche americane, quella strategia dello scaricabarile cui ancora oggi qualcuno ritiene di poter ricorrere. L’idea che si possa riproporre una sorta di eurocentralità nelle relazioni mondiali sembra non solo velleitaria nei presupposti, ma anche non sincera nel guardare a come e in che misura gli Stati Uniti intendono interpretare il loro ruolo in uno scenario che, se mal gestito, rischia di emarginarne le capacità non solo economiche ma anche militari di una potenza in difficoltà.
In un quadro così complesso nel quale tutto sembra sacrificabile in nome di una nuova visione di potenza europea targata Nato, ecco che anche lo speech di un nuovo solerte segretario generale non lascia dubbi sul come e in che termini, soprattutto, si intenda costruire la credibilità diplomatica non solo dell’Alleanza, salvo sorprese trumpiane, ma della stessa UE alla ricerca, quest’ultima, di una sua dimensione se non di un’autorevolezza dissoltasi nelle nebbie ucraine quanto nelle tempeste di sabbia in Medio Oriente e in Nord Africa.
Per Rutte, che sembra parlare all’ombra dei tulipani, l’Unione europea nel doversi oggi occupare di dotarsi di una propria credibilità strategica, poco importa se vestita di atlantismo o meno, dovrebbe necessariamente riarmarsi. Ciò significa, secondo Rutte, che l’europeo medio dovrebbe rinunciare a ciò che resta della sanità pubblica, del proprio welfare, ovvero di quanto rientrava nelle ragioni stesse dei Padri comunitari, per far sì che l’Europa atlantica si possa porre sulla strada di una competizione militare, piuttosto che politica, per conquistare e dimostrare con i muscoli ciò che con le idee non è stata capace di fare: la propria autorevolezza e la propria credibilità. E, tutto questo, ricorrendo a industrie della Difesa proprie o, visto la non capacità produttiva per volumi di approvvigionamento di sistemi d'arma almeno nel medio termine, anche a quelle di “paesi amici” extra UE. Cioè, gli Stati Uniti. Ma non basta.
In questo delirio politico senza realismo si aggiunge anche la, comprensibile ma inevitabile, preoccupazione dell’Ue e delle nazioni “virtuose” -che hanno investito più nella soluzione armata che non diplomatica- di essere tagliate fuori dai possibili futuri negoziati per chiudere la crisi russo-ucraina. Una conseguenza per aver scelto di sposare la via egemonica d’oltreoceano senza assumere posture diverse, più caute e decise, ma accollandosi spese importanti sottratte non solo al futuro del welfare europeo, ma alla stessa difesa. Una sorta di nemesi della credibilità mancata, sacrificata per una politica estera subalterna. Ma, sia chiaro! Non vi sono dubbi che la difesa non sia un valore necessario cui tener conto dal momento che un profilo credibile di dissuasione è, anche, sinonimo di autorevolezza. Tuttavia non sembra, con buona dote di realismo, che la sola forza militare possa garantire uno spazio di sicurezza e difesa condiviso prescindendone dalla realizzazione tra tutti gli attori del continente.
Ciò sarebbe possibile per un’Europa diversa, paradossalmente più coerente proprio con il suo passato, non affascinata da lusinghe di circostanza cestinabili all’occorrenza. Si dovrebbero superare egoismi non dichiarati come quelli, ad esempio, che rendono, i Baltici e Polonia (che spera di riprendersi Leopoli ai danni della “alleata” Ucraina) alleati molto particolari e …molto interessati a riconfigurare le relazioni politiche dettando le condizioni per tutti. D’altra parte, nel gioco dell’Alleanza si dovrebbe tener conto di quanto indicato da un attento John Mearsheimer in The Tragedy of the Great Power Politics per il quale la risposta di un’Alleanza non sempre avviene in tempi rapidi. Al contrario, spesso a ritardarne gli esisti sono proprio gli egoismi che sottendono ogni scelta politica e ogni interesse di ogni singola parte quando gli interessi anche solo di una parte degli alleati cambiano man mano. Insomma, se la Nato poteva rispondere con buona efficacia a una minaccia diretta contro di essa ciò, prima del 1991, era dovuto al fatto che la condivisione di un pericolo era definita all’interno di un quadro interpretativo unico senza il prevalere di ambizioni dell’una o dell’altra parte. Ma l’allargamento della Nato a Est e la fine di una minaccia unidirezionale ha reso sempre più ampi i margini di valutazione del come, in che misura e a quali costi rispondere come alleati o meno in caso di crisi, dovendo tener conto dell’interesse del dominus dell’Alleanza che può coincidere o non coincidere con quello degli “alleati” europei. E, questo, per il solo fatto che i presupposti storici tra gli stessi partners che ne hanno giustificato la creazione, per i primi firmatari del trattato del 1949, e per gli altri recuperati dopo il 2004, sono decisamente diversi.
Un aspetto, che agli europei atlantici per necessità e opportunità sfugge, come sfugge che un “Alleanza” è un prodotto politico e non proviene da un patto divino, ma che non sfugge, al contrario, agli Stati Uniti di Trump per i quali e per il quale è molto chiaro il fatto che a mutate condizioni, Washington è libera di alzare come e quando vuole il prezzo della partecipazione europea alla Nato, o di ritenerla non decisiva ritagliandosi propri spazi di manovra abbandonando, se necessario, gli stessi alleati. Immaginiamo, infatti, una possibile (e non da escludere) risolutiva guerra Russia+Cina contro Nato (leggasi UE). Rischieremmo non solo di veder denunciato il trattato da parte di alcuni alleati ma, anche, una Nato che vedrebbe gli Stati Uniti, presi dalla necessità di scongiurare un attacco sul proprio intoccabile suolo nazionale, porsi come coloro che alla fine starebbero a guardare e non correrebbero il rischio di essere distrutti scegliendo una posizione interlocutoria per mezzo della quale trovare un ennesimo compromesso tra potenze. La Nato, d’altronde, è sempre stata utile per gli Stati Uniti solo per tenere lontano ogni possibile rischio di coinvolgimento del territorio americano e per garantire lo spazio di mercato a stelle e strisce. Per questo, per gli Stati Uniti, il terreno di scontro previsto e considerabile, dottrinalmente dal 1949, è sempre stato solo quello europeo a prescindere da ogni dichiarazione resa e modifiche generiche apportate agli articoli del trattato o dall’elaborazione di Nuovi Concetti Strategici da Roma in poi. Ma non solo.
In questa corsa al riarmo necessario, piuttosto che di decidere come e con quali politiche condividere una ragione di sicurezza e difesa continentale, l’altra novità è l’introduzione di una Commissione ad hoc che dovrebbe garantire l’operatività di uno “scudo democratico” a difesa dei valori dell’Europa e della sua coesione. Una sorta di super advisor sulla qualità dei processi democratici all’interno dei Paesi membri che, messo in campo per prevenire eventuali manipolazioni del consenso da parte di attori esterni all’UE, alla fine si presenta come una minaccia alla stessa libertà di formazione del consenso, alla stessa libertà di espressione delle comunità nazionali le quali dovrebbero adeguarsi ai diktat democratici della Commissione realizzando, in questo modo, un’aberrazione dei valori liberali degli stessi trattati: una democrazia autocratica. Una sorta di organo tecnocratico la cui esistenza metterebbe in discussione quel rapporto fiduciario che dovrebbe instaurarsi dal momento dell’ingresso di uno Stato nell’Unione, nel suo accertato rispetto dei “criteri di Copenaghen”. Un organo la cui sola esistenza sarebbe letta come debolezza e non come forza del valore democratico, come immaturità politica dei Paesi partner e dei loro sistemi istituzionali.
Non vi sono dubbi a essere onesti, che la democrazia è un valore fondato sulla pari e uguale partecipazione alla vita politica e sociale di una comunità la quale, altrettanto liberamente, decide le regole e il come “governare” il potere per esercitare una governance nell’interesse comune. Tuttavia, non si può certo prescindere dalla qualità della percezione del valore democratico e del suo esprimersi da parte di ogni comunità nazionale, tenendo conto dell’esperienza storica e della cultura di cui ognuna ne è portatrice. Uno scudo democratico definito in termini tecnocratici rappresenta, così, la negazione delle stesse ragioni di esistenza e si presta a strumentalizzazione pericolose. La democrazia, infatti, se consolidata e riconosciuta come tale, non ha bisogno di difendersi poiché ogni comunità riconosciuta a sua volta come democratica dispone di argomenti e di anticorpi che la sostengono.
Concludendo, in questa nuova modalità di credere di poter vedere il mondo sotto una lente eurocentrica, forse ricordare l’opinione di un premio Nobel indiano naturalizzato statunitense e che ritiene che l’Occidente non ha l’unica chiave di lettura di cosa si debba intendere per democrazia non è certo un banale suggerimento. Per Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, l’Occidente non ha il monopolio della democrazia né è il depositario del suo significato. Un argomento che farebbe pari con un Gandhi che, molti anni prima, alla domanda di cosa pensasse dei valori democratici dell'Occidente rispose: “…sarebbe una bella idea… se questi esistessero”. La verità, oggi, è che dovremmo avere il coraggio di cambiare prospettiva.
Non si tratta di non essere atlantici o di non essere europeisti. Si tratta di esserlo diversamente per evitare il rischio di essere collocati ai margini di un mondo che non finisce nel nostro seppur Grande Mare. Trump non ci farà sconti se l’interesse degli Stati Uniti, secondo il suo punto di vista, è pregiudicato da una Europa competitiva e capace di imporre una propria visione politica, economica e strategica delle relazioni internazionali, perché convinto di poter giocare sulle incertezze e sulle incongruenze con un attore che è disposto a sottostare a ogni condizione pur di non assumersi responsabilità dirette. D’altronde la credibilità la si conquista con i fatti e attraverso posizioni decise e difese e l’Europa sembra stentare ad avere un simile coraggio scegliendo l’esser un pavido e inconcludente attore in cerca di un posto almeno da spettatore da seconda fila. L’Europa (e l’Italia), poteva fare la differenza sin dall'inizio della crisi russo-ucraina e non l'ha fatta, così come in Medio Oriente o nelle prossimità nordafricane.
Oggi si cercano sponde dovunque, e ci può stare. Lo fa l’Unione e, per differenza o ritaglio di dignità, lo fa anche l’Italia. Ma con quali garanzie? Non certo quelle sancite da una pacca su una spalla, da un sorriso o da una convenzionale stretta di mano. Meno che mai, sperando di poter giocare al doppio standard come se chi ci guarda da quel non-Western-World non sia capace di capire con chi ha a che fare nonostante vadano in scena commedie, o tragedie, poco degne di autori classici o meno tardivi del nostro passato che si consumano anche nelle aule parlamentari a noi più prossime.
Probabilmente un po’ più di umiltà coniugata con una buona forza, onestà d’animo e di intenti ci permetterebbe di rilanciare quell’idea di spazio di difesa e sicurezza continentale da Lisbona a Vladivostok che dopo il maggio 1997 abbiamo di fatto gettato nel cestino, rinunciando a fare dell’Unione europea, e di nazioni come l’Italia i protagonisti, seppur sottratti per differenza dall’atlantismo, di una nuova era e di una nuova storia. Probabilmente l’idea di affidare a leadership più pronte e presenti, oltre che più consapevoli e sicure permetterebbe quanto meno di recuperare quel quid pluris di credibilità e autorevolezza che fa la differenza tra un protagonista della storia e una mera comparsa.