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Dante, Goldoni e la politica estera italiana nell’era Trump

Dante, Goldoni e la politica estera italiana nell’era Trump
 

    Bisogna dire in premessa, quasi a far tesoro di una regola di precauzione, che diventa difficile scrivere della politica estera dell’Italia in un momento nel quale mai come nel passato si possono ascoltare, leggere e sentirsi raccontare analisi e riflessioni provenienti da quel qualunque italico ormai senza confine alcuno.

    In questo universo-mondo, espressione enfatica di nuova generazione, sembra che tutto sia chiaro, semplice, sin troppo prevedibile se non ancorabile a delle scelte ritenute opportune, nell’apprezzare ieri uno Zio “Tom/Jo” un po' attempato per poi, nel solito “Morto il Re! Viva il Re!” di italica memoria, aprire la porta al nuovo secondo Donald. Un ennesimo Mon Oncle d’Amerique che ci salverà dai nostri limiti, dalle nostre paure di sentirci isolati dal resto dei giochi nel mondo avendo affidato i nostri destini a un’Europa asfittica, se non ridondante nei proclami e completamente insignificante nelle politiche mondiali.

    Ebbene, lungi dal ricordare in che modo e termini si misura la politica estera statunitense - e come e sotto quali vesti essa si esprime dal lontano 4 luglio 1776 nel porre al centro quel National Interest declinato dalle diverse presidenze (a riguardo forse sarebbe il caso di rileggere un non datato Il Serpente e la Colomba di Russell Mead) - ecco Donald il Salvatore ergersi a paladino del nuovo corso, percorrendo quelle strade già note dai tempi di Theodore Roosevelt, e indicate anni prima da Andrew Jackson, che vedono gli Stati Uniti volersi ricollocare in cima alla Collina biblica da cui si domina il mondo.

    Ovviamente, è comprensibile che un tale e tutt’altro che imprevedibile cambio di paradigma si sarebbe ben presto presentato, e da qui la corsa oltreoceano a prendere buoni uffici nella speranza che si possa anche sovvertire quella fama, dantescamente tutta di quell’ Ahi serva Italia …del VI canto del Purgatorio, che ha contraddistinto l’azione esterna del nostro Paese quasi si trattasse di una cifra distintiva della nostra storia politica.

    Però credere che Trump, tra sorrisi e abbracci, faccia gli interessi dell’Europa, e dell’Italia, è una pura illusione tanto quanto lo sperare di ritagliarsi a costo zero un trattamento sempre di favore da parte degli Stati Uniti senza dover pagare dazi (il termine è alquanto adeguato) rappresenta una vera e propria utopia, se non un esempio di vanagloria per chi vorrebbe, ma non assurge ancora a essere attore internazionale a tutto tondo.

    In questo ci mancava anche Mosca. Il non ritenere l’Italia un attore possibile nei negoziati di pace per porre fine al conflitto tra Russia e Ucraina e il considerare marginale il nostro Paese anche nella crisi in Medio Oriente - come in passato in verità - non doveva creare sorpresa. Quale atteggiamento l’Italia doveva aspettarsi? In fondo, a ben guardare e a essere onesti soprattutto con noi stessi - ammesso che tale parola possa avere un significato “politico” costruttivo - cosa poteva aspettarsi l’Italia che scalpita per avere un ruolo nei negoziati tra Kiev e Mosca? Le memorie non sono per tutti corte.

    Certe espressioni, frasi, soprattutto quando provengono da banchi di un Parlamento di uno Stato che aveva consolidati rapporti non solo politici ma economici con Mosca - e non importa se dichiarati da un’opposizione oggi giunta al governo - mantengono un loro peso specifico se non altro in quel senso della parola detta, anche se non data, cui si vorrebbe riconoscere nell’agire del tempo, una certa coerenza.  Diventa difficile, infatti, pretendere un posto a tavola da parte di chi riteneva qualche anno fa, e lo dichiarava pubblicamente, fuori luogo l’allargamento della Nato verso l’Ucraina perché ciò avrebbe ragionevolmente provocato la reazione della Russia per poi assumere, anni dopo, una postura apertamente e dichiaratamente diversa a provocazione avvenuta.

    E non si tratta di stabilire la responsabilità politica di una provocazione voluta e presentata verso la Russia nel tentativo americano di scardinare la leadership del Cremlino attraverso Kiev e la Nato, e poter contare su un regime change favorevole agli interessi di Washington. Né di mettere in discussione la responsabilità giuridica di un’invasione illecita da parte della Russia.  Ciò di cui si paga e si pagherà il prezzo è il venir meno di quella qualità fondamentale nelle relazioni internazionali che è la credibilità di un Paese che va di pari passo, o si completa, con l’affidabilità.

    Di un Paese che dopo aver giocato su tavoli diversi in virtù del conto dell’oste del momento, oggi si presenta sorpreso di scelte e commenti di tutt’altro tipo che ancora una volta lo dovrebbero mettere di fronte a uno specchio, sopportandone anche l’inclemenza di non essere considerato il Bel Paese del Reame. O, se e si vuole, evitando di mettere in scena commedie goldoniane nel decidere come e in che modo e verso chi, se non prima verso se stesso, esprimere una loyalty a carte sempre più scoperte.

    Insomma, in questo gioco al sopravvivere politicamente cercando conferme da parte di altri, cercando di ricorrere a una sorta di neo-giolittismo, la volontà di Mosca di non ritenere l’Italia un attore gradito in caso di negoziati si commenta da sola. E non solo per le scelte fatte oggi, e nell’oggi prossimo a ieri. Ma perché queste, confrontate a un passato non lontano, segnano in modo decisivo l’affidabilità di una nazione in politica estera, dove la credibilità non è uno slogan o un hashtag di circostanza o un esercizio di scuola, ma una qualità; una vera e propria manifestazione di affidabilità in ciò che si è detto e in ciò che si dice, in ciò che si è fatto e in ciò che si fa, in come lo si è fatto e lo si fa tutt’oggi.

    L’Italia e l’Europa continuano a porsi al centro di diplomazie preparate, per quanto funzionali alle logiche di potenza, eredi di esperienze consolidate, da McNamara a Kissinger sino a Condoleezza d’Arabia e ancora oltre, che hanno permesso agli Stati Uniti di giocare partite rivolte a manifestare una sorta di missione universale, cercando di usare al meglio gli strumenti di una Provvidenza a volte avara di risultati e spesso generosa nel far pagare i costi a chi a essa si è affidata. Perché gli Stati Uniti sanno ciò che vogliono, sanno anche come ottenerlo e, se non ottenibile, sanno come uscirne e come e in che misura e verso chi distribuire (far ricadere) i costi.

    Così Mosca. L’Italia e l’Europa, si trovano a fare i conti con una diplomazia che fa tesoro di quanto lasciato da un Gromyko, ma anche da Shevardnadze, Kozyrev, Primakov o proseguita oggi con Lavrov. Una “scuola” diplomatica che sa come e in che termini negoziare, dove cercare attori ritenuti credibili, ci piacciano o meno, dopo essere stata rifiutata da coloro che nel 1997 aprirono le porte al dialogo e sui quali proprio la Russia contava nel costruire mercati e reti commerciali nel tempo e di sicuro vantaggio per tutto il continente europeo: la stessa Nato, l’Europa e, con essa, l’Italia.

    Oggi è sempre più evidente che il non aver scelto il 25 febbraio 2022, il giorno dopo l’invasione delle province russofone dell’Ucraina da parte delle truppe di Mosca, di assumere un atteggiamento più prudente cercando il dialogo e i negoziati sin da subito - scegliendo di allinearsi alle troppo facili aspettative di Washington e alla miope vanità della Commissione europea convinta che solo le ragioni delle armi avrebbero dettato le sorti di tale crisi - presenta un saldo politico e geopolitico di tutto rispetto, purtroppo.

    Politicamente, la poca credibilità di attori che in Europa e nel mondo avrebbero dovuto contare meglio e di più in termini di credibilità e non di sola visibilità. Geopoliticamente, il suicidio assistito (dagli Stati Uniti) di un’Unione europea incapace di esprimere a sua volta una credibilità fatta di assertività internazionale, sacrificata alle logiche tecnocratiche se non a una visione edonistica e personalistica, vista la riconferma della leadership della Commissione. La crisi di un’idea di un continente geopoliticamente incapace, oggi, di essere il primo promotore dei suoi stessi principi, dei suoi stessi ideali; incapace di porsi al di sopra di troppi doppi standard nel ricercare la vera linea di confine tra il giuridicamente illecito e il politicamente opportuno. Incapace, sin dagli incontri di Minsk, di riuscire a fare la differenza collocando un proprio interesse europeo ed evitando morte e distruzione.

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