Obama annuncia al mondo: “[…] abbiamo raggiunto l’obiettivo. Osama Bin Laden è stato ucciso durante l’operazione che doveva portare alla sua cattura […]”.
Nella vicenda, nella storia del confronto tra Occidente e terrorismo, tra Islam radicale e ciò che rappresenta una cultura dell’individuo, della democrazia come valore universale e della convivenza in un mondo trasfigurato da un’opulente decadenza delle economie finanziarie e riti consumistici, la vicenda, l’operazione che ha portato alla fine di Bin Laden ha diversi significati.
Può avere il significato di regolare i conti con il dramma dell’11 settembre del 2001; può essere il motivo per affermare la credibilità di una potenza, gli Stati Uniti, impantanatasi in Afghanistan dopo aver subito una forte diluizione della capacità politica e militare in Iraq. E, se si vuole, può indicare che i giochi sono ancora aperti nello scenario internazionale per affermare un principio di leadership mondiale dai quali Washington ed un presidente in crisi da carisma non vogliono e non possono sottrarsi. Giochi di ruolo che obbligano gli Stati Uniti a non restare affascinati da un role-play che non esprime più una rendita geopolitica indiscutibile.
Spiegazioni, motivazioni plausibili, le precedenti, ma non bastano. O, meglio, non sono sufficienti a cogliere il vero senso del successo se tale sarà dell’operazione condotta dagli Stati Uniti per chiudere definitivamente ogni conto con Al Qaeda. E, cioè, quello di liberare l’Occidente dalla paura. Si, liberarlo da quella paura strumentale che lo ha reso e lo rende ostaggio in politica estera di scelte decise a metà. Di posizioni interlocutorie o preda di vanità oligarchiche che hanno visto le democrazie europee credere in un laissez-faire che ha pagato molto poco in questi ultimi anni. O, meglio, che nonostante la paura, il prezzo dell’insicurezza è stato pagato dopo New York, a Madrid, Londra, in Egitto come altrove.
Come scrissi in passato Bin Laden, in fondo, spettro della debole coscienza occidentale, ha strumentalizzato molto bene quella insicurezza, quelle paure che segnano l’angoscia delle comunità occidentali trasformando tali percezioni e il non senso della storia che le ha pervase negli ultimi decenni in un proprio fattore di potenza. Alla paura del futuro degli occidentali, presi dalle possibilità di consumo e dalle imprese finanziarie, lo sceicco del terrore ha contrapposto la certezza di un modello organizzativo e di una cultura senza tempo costringendo l’Occidente a confrontarsi su un piano dialettico -politico e religioso- e militare dove la scelta si fermava sempre nel dilemma tra auspicarsi una vittoria, difficile e complessa, o una “onorevole” non-sconfitta. L’undici settembre, Madrid, Londra e gli altri attentati in Europa come altrove nono sono stati solo la cartina di tornasole di una politica debole. Essi hanno dimostrato, nella loro drammaticità, quanto siano determinanti gli equilibri politici e non solo delle periferie del mondo al punto tale da mettere in discussione sia le dottrine fondate sulla potenza che sull’equilibrio.
Le crisi in Nord Africa come in Siria e in Egitto dovrebbero far si che l’Occidente riprenda coscienza e sia consapevole che non può non avere un ruolo nell’arena mondiale e che le relazioni internazionali diventeranno d’ora in poi sempre più competitive e sempre a più attori. La lezione di Bin Laden è stata estremamente chiara nel suo modo di agire, di condurre e far condurre operazioni terroristiche: e cioè, che la violenza sarà sempre meno verticale e sempre di più orizzontale. Ovvero, essa supererà ogni confine possibile dilatandosi man mano con il suo alone di sofferenza in più comunità.
Con Bin Laden è finita da tempo l’era della guerra tradizionale sostituita con una guerra condotta, e costretti a condurla, contro un nemico apparente che ha applicato come criterio strategico il presentarsi quale minaccia a più dimensioni, organizzandosi tatticamente su modelli di perfetta asimmetricità nel tentativo di far impantanare le forze regolari in una vera e propria non-guerra L’Occidente ha pagato sino a ieri il prezzo di una concezione delle relazioni internazionali ferma alle politiche d’altri tempi mentre il mondo, nel frattempo, era già cambiato. La speranza è che nessun altro possa d’ora in poi ricordare all’Occidente che il cambiamento o lo si governa o lo si subisce.