"…La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni…”
Alexander Dubcek

Se Ankara fa i capricci

Il voto ad Ankara è certamente un appuntamento importante per il mondo occidentale inteso nelle sue due più importanti manifestazioni politiche: l’Unione Europea e l’Alleanza Atlantica. Di fronte ad una evidente complessità dei rapporti che nascono da soluzioni mai volute conseguire -sia nella chiarezza delle relazioni tra alleati, nella verità sulla questione armena e curda, che in quelli economici, ovvero la possibilità di aprire le porte del Bosforo all’Unione Europea- la Turchia si pone nuovamente quale fulcro dell’equilibrio possibile tra anime diverse, contiguamente costrette a guardarsi negli occhi.


Non si tratta solo di riprendere l’adagio di una Sublime Porta che si apre verso Est e verso Ovest, quasi a suggellare un ponte politico e culturale tra due mondi diversamente importanti per la stabilità delle relazioni d’area e per le opportunità di crescita. Né di mettere in discussione se Ankara avrà la capacità di affermare una posizione di maggior democratizzazione dei processi rappresentativi al proprio interno e di far si che, definendo un ruolo europeo da protagonista della Turchia, si possa favorire il superamento delle limitazioni ancora presenti per alcune libertà fondamentali. Libertà negate, soprattutto in materia di opinione e di tutela delle minoranze, che pregiudicano ad Ankara di condividere un’idea di Europa che va oltre l’orizzonte greco. I valori storici sui quali costruire simili presupposti, riconoscendo il disastro armeno e superandolo in coscienza storica oltre che politica, certo non mancherebbero. Depositaria della cultura bizantina surrogatasi con quella dell’Islam ottomano, modernizzatasi anche se per forza di necessità in una soluzione laica del potere, la Turchia rimane quell’anello che l’Occidente ha saputo in piena Guerra Fredda traghettare all’interno della propria sfera geopolitica. Ma lo stesso Occidente, limitandosi più alle logiche militari che politiche -non riuscendo a comprendere l’importanza di una modernizzazione progressiva di Ankara verso la strada della piena democrazia e senza sostenerne il cambiamento nella storia degli ultimi decenni- nulla ha fatto per far si che si formasse e affermasse un senso di apertura a riforme orientate verso una più libera partecipazione civile alla vita politica del Paese.

Con il risultato nel passato recente di aver permesso una, seppur moderata, deriva politico-religiosa rappresentata dalla leadership di Erdogan. Un presidente in crisi di consensi, che per consolidare il proprio potere risveglia sentimenti identitari avversi a quei principi occidentali che si fondano sullo stato di diritto e sul rispetto dei diritti umani, individuali e collettivi. Nei prossimi giorni si rischia di non poter disporre per il prossimo futuro di un alleato e di un partner sufficientemente vicino agli interessi dell’Europa dal momento che sembra volersi far strada una visione completamente diversa da quella che ha voluto quella Turchia laica e moderna, divenuta poi atlantica e a suo modo europea, da Ataturk in avanti. La marginalizzazione della Turchia dai processi di crescita dell’Unione Europea, ritenendo che fosse sempre fuori discussione la “lealtà” turca di essere il baluardo più estremo dell’Occidente verso le intemperanze dell’universo islamico, alla fine ha ottenuto il risultato non voluto. Ovvero, allontanato Ankara da una prospettiva continentale non solo economica, ma anche di sicurezza. In una fase storica così delicata, dove la vulnerabilità della politica occidentale in Oriente è sotto gli occhi di tutti, abbandonare la Turchia può dimostrarsi rischioso. Rischioso per il consolidarsi di derive autocratiche determinate da uno spostamento dell’asse politico interno verso un irrigidimento di una leadership consapevolmente debole.

Una leadership, quella di Erdogan, che ricerca nel fondamento politico-religioso del proprio programma la legittimazione al potere. Privarsi di una Turchia “europea” e atlantica, in un momento di forte tensione in Medio Oriente e nel Nord Africa, significherebbe fare a meno del più importante laboratorio di Stato laico nel mondo dell’Islam offerto dalla Storia. Uno Stato che, in fondo, ha condiviso molto; tragedie e successi di un Occidente rinato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Oggi sembra mancare alla comunità euro-atlantica il coraggio di sostenere un processo di cambiamento all’interno e verso la Turchia. Un cambiamento la cui affermazione varrebbe più di ogni altra primavera e per due ragioni. La prima, perché la riaffermazione di una Turchia che possa riprendere il proprio percorso di modernizzazione e laicizzazione della vita politica permetterebbe di disporre di uno Stato leader da contrapporre ad ogni possibile regime ancorato ad autoritarismi religiosi. La seconda, perché si completerebbe quell’area di continuità tra Oriente e Occidente dove diritti e possibilità di confronto tra diversità possono, e devono, diventare fondamentali esempi di dialogo, di condivisione per chi dall’altra parte del Mediterraneo pur “combattendoci” guarda con curiosità quanto l’Occidente riuscirà a fare.

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