Non so perché ho vissuto con particolare coinvolgimento la frenesia del contagio, o perché mi sono sentito così intimamente toccato nel profondo del mio orgoglio, italiano o calabrese non lo so, per quanto ho letto, ascoltato e vissuto negli ultimi giorni. Non credo di aver avuto natali così importanti per assumere una posizione di alterigia nei confronti del prossimo o delle vicende che riguardano, il prossimo, nella sua evangelica interpretazione. D’altronde, non credo di aver mai manifestato, e se per caso ve ne fosse il ricordo chiederei anche scusa, di soffrire di una carenza aristocratica magari compensata con il sottolineare una posizione sociale, o con l’appartenenza a blasonate associazioni giusto per distinguermi dalla massa.
Credo di aver avuto qualche esperienza per poter ricordare quanto e in che misura drammi dovuti a emergenze hanno contrassegnato il mio modesto operato, sia al Nord come al Sud. E, credo, altrettanto, di aver imparato che serietà e una buona dose di distacco siano in fondo gli ingredienti preliminari, essenziali, per poter decidere come e in che modo agire e soprattutto nei confronti di chi. Non celebro le mie imprese, non ne ho così tante e lascio gli eroismi di circostanza ad altri, dal momento che non credo negli eroi. Tuttavia vorrei sottolineare due cose.
La prima è che comunque sia andata, e comunque andrà, abbiamo perso una grande occasione come italiani di dimostrare quel giusto sangue freddo, e quella giusta dose di realismo, che permette ad una nazione di essere grande. Grande nella sua unità, nel suo andare oltre le staccionate, se non veri e propri muri ideologici, ai quali anche un virus è dovuto sottostare cambiando colore più volte secondo le convenienze mediatiche, contro ogni ulteriore aspettativa di possibile mutazione.La seconda, l’occasione persa dal Sud e dalla stessa regione di dimostrare di essere sicura e razionalmente coesa, e non emotivamente perturbabile per frenesia da contagio, ponendosi come una sponda, seppur con le cautele ma senza tragedie, per assumere un comportamento ragionato e ragionevole. Un Sud che ha visto alcuni amministratori andare in ordine sparso, a vario titolo e secondo interpretazioni comune per comune. Una corsa a prevenirsi dal possibile untore, questa volta proveniente dal Nord, che non ha lasciato tempo per guardarsi indietro o attorno. Ma non solo.
Si sono man mano sovrapposte dichiarazioni e commenti dei più disparati con esperti virologi da social se non da mercato del sabato. E, anzi, proprio due giustificazioni raccolte tra le pagine impazzite del web mi sono sembrate le più emblematiche.La prima. Ad ogni pensiero divergente sulle scelte fatte al Sud si è risposto riportando tutto sul piano della fatalità. Un destino rassegnato che assecondando lo stato delle cose chiedeva, visto che non saremmo in grado di fronteggiare le emergenze, di evitare di scendere al Sud e di lasciare tutto com’è, poiché in fondo chi vi risiede si accontenterebbe di quanto ha e, per carità, non chiede che sia necessario di più. La seconda: la paura della discesa dei ...calabresi del Nord - di certo non di turisti geneticamente padani, questi ultimi già restii a frequentare le nostre spiagge in stagioni più indicate - ma di ragazzi o ragazze di ritorno da università del Nord, o di uomini e donne che lavorano al Nord o che coprono cattedre in attesa di ruoli scelte, non a caso, al Nord. Un timore, dettato dal fatto che se l’emergenza si fosse manifestata anche al Sud, la sanità non sarebbe stata in grado di dare le risposte necessarie.
Due considerazioni che sono disarmanti e che fotografano due aspetti che, al di là delle quarantene degli altri, dimostrano come il Sud sia in quarantena, culturale, da sempre e che sembra voglia restarci ancora per anni. E quindi, ancora, la prima: il rinchiudersi nel chisti simu quando il confronto diventa poco sostenibile per scarsità di argomenti. La seconda: la consapevolezza, tragica, di una sanità che in una possibile emergenza non sarebbe in grado di dare risposte. Una consapevolezza che denota non solo quale sia il livello di fiducia del cittadino, ma che ipoteca il futuro qualora si dovessero manifestare al Sud problemi pandemici veri o presunti che siano. Un pensiero cui vorrei ricordare che è nella gestione delle emergenze che si vede la qualità delle strutture sanitarie, perché una sanità che improvvisa nelle emergenze è quella che poi trascura il quotidiano.
Ma vi è una terza giustificazione alla paura da contagio del Nord raccolta nell’universo da tastiera, ed è data dalla domanda: ma se fosse capitato al Sud quanto successo al Nord le regioni coinvolte come avrebbero reagito nei nostri confronti? Ecco, io credo che in questa ultima domanda/risposta risieda un animus di cui non riusciamo a liberarcene. Quel limite che guarda a cosa farebbe il vicino buono o cattivo che sia, senza pensare come e in che modo posso dimostrare dignità o una superiorità di sentimento porgendogli la mano proprio quando egli è in difficoltà. Ma sono sentimenti troppo semplici nella loro nobiltà, che vanno ben oltre gli egoismi del momento e che ci condannano a quel voler essere protagonisti senza memoria di un Eschilo senza tempo.